«Strano tipo tuo fratello… Però mi piace. Peccato che avesse un impegno…»

«Già.»

«Anzi, ci piace molto… Stavo appunto dicendo a Gabriella che sarebbe bellissimo se ci fosse occasione… Sì insomma, potremmo invitarli da noi in campagna…»


Gianfilippo capì subito a cosa alludeva. «Sì, sarebbe bellissimo. Mio fratello ha solo un piccolo problema…»

Benedetta e Gabriella lo guardarono incuriosite, poi improvvisamente preoccupate.

«Quale?»

«Non vuole essere felice.»


Andrea aveva le cuffie, ascoltava a occhi chiusi quella musica. Poi li aprì e guardò Sofia in quel video. Le sue mani volavano sulla tastiera, teneva il capo chino, coperto dai capelli che le cadevano davanti, ballavano con lei mentre si muoveva sul pianoforte, rapita dalle sue stesse note.

I suoi capelli castani erano più chiari del solito, quasi sbiaditi. Era settembre, il suo ultimo concerto.

Andrea la guardò, la telecamera strinse sul suo viso, ora era di profilo. Sofia aveva gli occhi chiusi mentre suonava il finale del pezzo. Andrea andò a tempo con lei, muovendo la testa, ondeggiando anche lui su quel brano, su quelle ultime note, così sentite, così toccanti.

E senza volere, una lacrima gli scese sul viso. Continuò a muovere la testa e non sapeva se il dolore fosse provocato dal ricordo di quella ripresa fatta proprio da lui, su quel palco, all’interno del conservatorio, quando ancora si poteva muovere, o perché da allora tutto si era fermato. Sofia non aveva mai più suonato, quella sua incredibile e tanto decantata dote era stata messa da parte, abbandonata in una soffitta, dimenticata. Come un regalo che non è stato aperto, un bacio mai dato.

Mentre nel video Andrea ascoltava quell’applauso scrosciante, improvvisamente si sentì osservato e abbassò lo schermo del computer. Davanti a lui comparve la Sofia di otto anni dopo.

«Ehi… con chi stai chattando? Sono gelosa.»


Andrea si tolse le cuffie.

«Ciao amore, non ti ho sentita rientrare…» Le sorrise e provò a spostare il computer sul comodino vicino, ma lo fece con fatica, come se anche quel piccolo peso fosse un problema, una difficoltà insormontabile. Sofia gli fu subito a fianco e lo aiutò. «No, lasciamelo qui… Magari dopo lo voglio usare di nuovo.»

«Te lo rimetto vicino quando esco.»

«Ah…»

«Che vuol dire?»

«No, dico, esci di nuovo…»

«Amore, forse non ti ricordi ma come ogni giorno…

vado a insegnare.»

«Mi sembra assurdo che tu faccia questo. Potresti guadagnare mille volte di più esibendoti e dando uno di quei concerti per i quali venivano ad ascoltarti da mezzo mondo. E tu invece ti ostini a insegnare musica in una scuola.»

«A parte che lo faccio sia in una scuola che al conservatorio… e poi mi piace molto insegnare, ci sono tante giovani promesse.»

«Sì, come quel Daniele che ti ha scritto una lettera d’amore…»

«Ma ha sette anni!»

«E allora? Magari non ha fretta e persiste nel suo sogno.»

«Sì, con un unico piccolo dettaglio, che quando lui avrà diciotto anni io ne avrò quaranta!»

«Be’? Vanno così di moda oggi le coppie dove lui è molto più giovane…»

«Amore…» Sofia gli sorrise dandogli un bacio sulle labbra. «Sai che io amo essere fuori moda, no?» Poi si accorse di aver urtato le sacche delle urine e delle feci.

Sofia fece per prenderle quando Andrea le bloccò la mano.

«No, lascia stare…»


«Ma sono piene.»

Andrea rispose con rabbia. «Ho detto lascia stare!»

Sofia si ritrasse come spaventata da quell’urlo improvviso. Andrea se ne accorse e le parlò con più calma.

«Più tardi verrà Susanna. Preferisco che lo faccia lei.»

«Certo… Hai ragione.» Ma questo non le bastò.

«Scusami…» E subito andò in cucina, finì di aprire le borse della spesa una dopo l’altra e, cercando di distrarsi, iniziò a mettere a posto la roba nel frigorifero. Poi si fermò, poggiò le mani sul tavolo e chiuse gli occhi.

Fece un lungo sospiro e quando li riaprì si guardò intorno. Improvvisamente tutto le sembrava vecchio, era come se fosse fermo, immobile, lì da troppo tempo. La lampada nell’angolo in alto, a destra del frigorifero, i biscotti poggiati sul bancone, il tagliere, quel vecchio grande coltello. Era come se la sua vita si fosse fermata quel giorno.

Guardò l’orologio.

“Non posso crederci, ma quanto ci mette? Io ho una fame… Sono già le nove e mezza. Ma ci vuole così tanto per cambiare una pizza? Se lo avessi saputo non glielo avrei chiesto. Che pizza…” Sofia scoppiò a ridere, non si poteva litigare per una pizza. E poi era così ispirata in quei giorni. Senza dire nulla a nessuno e tanto meno ad Andrea, stava preparandogli una sorpresa. Una co-sa che li avrebbe legati per sempre: da settimane stava studiando in gran segreto il brano di Liszt, Après une lecture de Dante, per lei il pezzo più bello e proibitivo degli Anni di pellegrinaggio. Era un’opera che la com-muoveva profondamente, come si immaginava avesse commosso — anzi, lo sapeva per certo — lo stesso compositore quando l’aveva scritto. Liszt era innamoratis-simo della principessa Carolyne Iwanowska e, dopo centocinquant’anni, lei, Sofia, principessa di nulla, lo dedicava al suo innamorato, al suo principe — sì, non si vergognava di chiamarlo così.

Si sedette al pianoforte e guardò la tastiera. Quanto doveva ancora studiare? Forse due settimane e poi…

e poi al primo concerto con semplicità, dopo l’ultimo applauso del pubblico, avrebbe detto: “Come bis vorrei suonarvi un pezzo di Franz Liszt che dedico a una persona che mi è molto vicina”. Avrebbe guardato Andrea e lui, in prima fila, avrebbe ricambiato lo sguardo. Si sarebbe messa alla tastiera e avrebbe iniziato a suonare, immaginando come lui a ogni passaggio tumultuoso, struggente o virtuosistico sarebbe rimasto stupito sempre di più.

Quello sarebbe stato il loro pezzo, e mai, mai l’avrebbe suonato di nuovo. Iniziò a martellare la tastiera e si dimenticò del mondo che esisteva là fuori. E non si accorse che poco lontano da lei accadeva qualcos’altro.

Il suo cellulare si accendeva in continuazione, una dopo l’altra arrivavano le telefonate, le sue amiche del cuore, i suoi amici e poi ancora i suoi genitori e infine l’ospedale. Ma Sofia continuava a suonare rapita dall’emozione di quel pezzo. Ci aveva lavorato un anno e lo avrebbe suonato solo per lui, per l’uomo che amava, per colui che sarebbe stato per tutta la vita. E sorrise pensando alle solite sciocche discussioni, al suo carattere un po’

capriccioso, alla sua inquietudine di fondo. Poi sorrise forte di quell’unica certezza. “Lo suonerò per te, Andrea. ” E con quell’ultima convinzione si lasciò andare completamente. Muoveva veloce le mani sulla tastiera, sotto le sue dita le note saltavano come impazzite, pic-chiava sui tasti con rabbia, ma a tratti con dolcezza e con passione accompagnò quel pezzo fino alla conclusione. Sfinita, non fece in tempo a staccarsi dalla tastiera che sentì quel rumore. I colpi alla porta e poi di nuovo il campanello. Insistente, continuo, assillante. Come se qualcuno ci si fosse incollato, e di nuovo quei colpi al pesante legno della porta, come se al di là ci fosse più di una persona. “Avrò suonato così male?” Sorrise tra sé mentre andò di corsa alla porta. “E troppo tardi forse? Guardò l’orologio. Posso almeno fino alle dieci e mezza…”

Quando aprì, si meravigliò. Che ci facevano lì Giorgio e Stefania del piano di sotto? «Ma che succede?…

Cosa è accaduto?»

Stefania la guardò negli occhi, indecisa su cosa dire e come, poi scelse quell’unica parola. «Andrea…»

Sofia si portò la mano alla bocca, disperata, poi fece un respiro lungo che le si spezzò in gola. E fu come se in quell’attimo una cattedrale di inni, di cori, di note, di brani, tutta quella musica che fin da piccola aveva tanto amato, si sbriciolasse davanti ai suoi occhi.

Poco dopo fu all’ospedale, all’affannata ricerca del pronto soccorso. Sofia non credeva ai suoi occhi, le sembrava di vivere in un incubo, era come un girone infernale, uomini e donne feriti, bianchi in volto, dalle espressioni doloranti, si aggiravano per quello stanzo-ne. Qualcuno piangeva, qualcuno si disperava, altri stavano in un silenzio attonito, come se non volessero accettare in nessun modo quello che ormai era accaduto.

«Dov’è? Mi dica dov’è…» cominciò a urlare al primo che sembrava un dottore. Poi qualcuno glielo disse. Co-sì si ritrovò davanti alla sala operatoria. Era sola. Aveva avvisato la madre di Andrea che però era in viaggio e lì sarebbe arrivata il prima possibile. Passarono i minuti, interminabili, poi le prime ore. Un silenzio inconcepi-bile. Si sentivano quasi scoccare i secondi. Come se ci fosse stato un unico orologio al centro della Terra che teneva il lento, inesorabile passare del tempo. Sofia era affranta. Era rimasta immobile con le mani che le copri-vano il viso, piegata in avanti su se stessa, appoggiata al-le ginocchia. Poi le parole inesorabili dell’unico dottore che sembrava credibile.


«Lo stiamo operando ma non posso nasconderle che non credo che ce la farà. E se ce la farà sarà durissima per lui. Forse non potrà mai più camminare.»

Sofia si sentì mancare, sarebbe caduta se non ci fosse stato quel dottore a sorreggerla.

«Non potrà più camminare…»

Quelle parole le erano rimbombate nella mente. E

allora che fare? Cosa sperare? Se mai avesse potuto decidere, cosa avrebbe scelto? Se un dottore le avesse chiesto: “Mi dica, Sofia, cosa sceglie per Andrea? La vita… o la morte?”.

“Ma una vita come, dottore? Una vita infelice? Una vita da handicappato, una vita da invalido? Lui che ha sempre amato la sua fisicità, la sua forza, lui, il ragazzo senza confini, che non conosceva paura, lui dei mille sport, delle mille avventure. Lui che sembrava non aver mai sonno, mai essere stanco. Lui e la sua voglia di amare, lui e la sua voglia di vita… Cosa mi sta do-mandando, dottore? Quale scelta ho? E se un giorno tornasse a camminare? Quante volte vi siete sbagliati voi medici…”