le dodici ore all'aeroporto. Che fatica. Ma
sono sicura che ne varrà la pena! Sono sicura
che andrà benissimo, da sogno.
18 settembre.
Iaoooo! Mi è andata bene ma che dico strabene!!!
Ho passato il provino al TdV, dove lavora
lui. Roba da pazzi! Ce l'ho fatta!! Non ci
speravo proprio. Ma la cosa più assurda è che è
passata anche Ele! Oh, non aveva mai superato
un provino! Step... Ma portassi fortuna? Di una
cosa sono sicura. Ora lo vedrò tutti i giorni.
E ora? Ma dove scappi? Ma è troppo giusto così.
. . Troppo forte. Troppo bello. D'altronde ogni
tanto c'è giustizia a questo mondo! Oh, ancora
non ci credo però... Comunque questa poesia è
per te!
Step. Ho sempre avuto voglia di te.
Ho voglia di te.
Per tutto quello che ho immaginato, sognato,
desiderato.
Ho voglia di te.
Per quello che so e ancora di più per quello
che non so.
Ho voglia di te.
Per quel bacio che non ti ho ancora dato.
Ho voglia di te.
Per l'amore che non ho mai fatto.
Ho voglia di te anche se non ti ho mai assaggiato.
Ho voglia di te, di tutto te. Dei tuoi errori,
dei tuoi successi, dei tuoi sbagli, dei tuoi
dolori, delle tue semplici incertezze, dei pensieri
che hai avuto e di quelli che spero hai
dimenticato, dei pensieri che ancora non sai.
Ho voglia di te.
Ho così voglia di te che nulla mi basta.
Ho voglia di te e non so neanche perché...
Uffa. HO VOGLIA DI TE.
Improvvisamente sento un botto. Mi giro di colpo. Gin è sulla
porta della camera. Paolo è dietro di lei.
"Scusami Step, ma non sono riuscita a fermarla. Mi si è infilata
dentro casa come un razzo e..."
Alzo la mano. Paolo capisce. Si ferma. Sta zitto. Non dice più
niente. Rimane con la faccia da ebete, fermo sulla porta mentre
Gin
entra nella stanza. Cammina lentamente, mi guarda ma sembra
passarmi
attraverso. E come se il suo sguardo andasse lontano a cercare
chissà cosa. Scoperta nella sua verità d'amore. Oltre... Ha gli
occhi tristi. Bagnati. Privi di qualsiasi sorriso. Bellissimi. E
mi si
stringe il cuore. Perché ha una luce che conosco. Vedo tutto
quello
che ho vissuto, tutto quello che ho passato, tutto quello che è
naufragato.
"Gin... io..."
"Shh" mi fa lei. E si porta il dito indice davanti alla bocca,
come
una dolce bambina. Chiude gli occhi e scuote la testa.
"Non dire niente, ti prego..." Si riprende i diari, uno dopo
l'altro,
li poggia sul tavolo e li controlla. Li conta e l'infila nella sua
borsa. E se ne va via così, di schiena, senza voltarsi, in
silenzio.
Capitolo 79.
Una chiesa. Spoglia. Un centinaio di persone. Alcuni in piedi,
altri seduti, qualcuno appoggiato a quelle importanti colonne,
antiche,
scurite dal tempo passato, dalle tante preghiere ascoltate, dai
desideri invocati, dai dolori sofferti. Da loro, dai tanti. Dagli
altri.
E poi il mio dolore. Qui. Presente. Il dolore di non aver saputo
essere
fino in fondo protagonista della mia vita, di aver solo perso del
tempo... E per fare cosa poi? Giudicare. Io, giudicare mia madre.
E non riesco a capire come non me ne sia potuto rendere conto
allora.
Improvvisamente mi accorgo come tutto mi è sfuggito di mano,
come accecato da chissà quale ragione ho corso furioso, cieco,
rabbioso verso chissà quale giustizia... E solo ora capisco quanto
ho
fallito. Nel mio ruolo più semplice. Non mi si chiedeva altro,
nulla,
se non il silenzio. Non esprimermi. Anche perché non avevo titoli,
né ruolo, né mandato, né diritto... Niente. Niente che mi desse
quella facoltà: perdonare. Perdonare. Chi sono io per perdonare?
Chi siamo noi per perdonare, chi siamo per poterci dare questo
titolo? E invece no, testardo, egoista, cieco, sono voluto
diventare
giudice. Senza alcun diritto, senza alcun ruolo, senza meriti,
senza un perché. Senza. Prosopopea. Presa da chissà dove, da quale
sentito dire, frutto di quella borghesia più insulsa... E poi, la
cosa
ancor peggiore. Non solo arrogarsi il diritto di perdonare, ma
non saperlo neanche fare. Non perdonare. Ecco. Sono qui in questa
chiesa. In silenzio. E sto male. Non c'è niente di peggio che
sentire
la tua vita sfuggirti tra le mani come semplice sabbia che pensavi
un tempo fosse tua e che invece non ti appartiene più. Come
se tu fossi fermo in piedi, per caso, in uno stabilimento
qualsiasi,
schiavo del vento e di tutto quello che lui ha deciso per te. Non
ho
più niente tra le mani, non mi resta nulla. E me ne vergogno. Mi
guardo in giro. Mio padre, mio fratello, le loro compagne. Perfino
Pallina, Lucone, Balestri e gli altri miei amici. Qualcuno che
manca...
Qualcuno invece di troppo. Ma non mi va neanche di pensarci.
Quelle cose che si devono fare, per formalità, per finto buonismo,
perché non si ha mai il coraggio di essere coerenti fino in fondo,
perché non si sa mai cosa ci aspetta... No. Non ci voglio pensare.
Non oggi. Intorno a me poi tanta altra gente di cui non so neppure
il nome. Parenti lontani, cugini, zii, amici di famiglia, persone
che ricordo solo attraverso foto sbiadite, ricordi confusi di
feste,
di momenti passati, più o meno felici, di sorrisi, di baci e di
altro
ancora, che non so, di chissà quanti anni fa. Un prete ha letto un
brano. Ora sta dicendo qualcosa. Cerca di farmi capire come tutto
quello che sta accadendo è un bene per noi. È un bene per me. Ma
non riesco a seguirlo. No. Non ce la faccio. Il mio dolore è
tanto.
Non riesco a pensare, a capire, ad accettare, a essere
d'accordo...
Come può tutto questo essere un bene per me? Come, in che modo,
per quale assurda ragione? Ha detto cose, mi ha raccontato storie,
mi ha fatto promesse... Ma non riesce a convincermi. No. Solo
di una cosa sono sicuro. Mia madre non c'è più. Solo questo mi è
chiaro. E questo mi basta. O meglio, non mi basta affatto...
Mamma,
mi manchi. Mi manca il tempo di viverti di nuovo, di poterti
dire quello che ora ho capito. E lo dico in silenzio. Ma tu mi
senti.
Un organo comincia a suonare. Dal fondo della chiesa vedo arrivare
Gin. È vestita di scuro, cammina in silenzio. Passa lungo le
arcate,
si tiene fuori dalla vista dei molti, ma non dalla mia. Poi
appoggia
con dolcezza una corona ai piedi dell'altare e mi guarda. Da
lontano. In silenzio. Non accenna a niente. Né un sorriso, né un
rimprovero. Niente. Uno sguardo pulito come solo il suo può
essere.
Al di sopra di tutto, capace di non mischiare il dolore e il
rispetto
con qualunque altra cosa. Un ultimo sguardo. Poi la vedo
tornare in fondo alla chiesa. Poco dopo tutto è finito. All'uscita
la
cerco ma non c'è più. L'ho persa. Persone mi vengono incontro, mi
abbracciano, mi dicono cose, mi stringono la mano. Ma non riesco
a sentire, a capire... Cerco di sorridere, di dire grazie, di non
piangere.
Sì, soprattutto di non piangere. Ma non ci riesco. E non me
ne vergogno. Mamma, mi mancherai. Sto piangendo. Sto
singhiozzando.
E uno sfogo, una liberazione, è la voglia di essere ancora
bambino, di essere amato, di tornare indietro, di non voler
crescere,
di aver bisogno del suo amore puro. Qualcuno mi abbraccia, mi
tiene le spalle, mi stringe. Ma non sei tu, mamma. Non puoi essere
tu. E io mi appoggio, mi piego. Nascondo il mio viso e le mie
lacrime.
E vorrei che non fosse tardi. Mamma, perdonami.
Capitolo 80.
Alcuni giorni dopo. Non so quanti. Quel dolore che provi. Che
non riesci a capire da dove possa arrivare. Che non ti dà
spiegazioni.
Che ti sbatte giù come una grande onda che non avevi visto, che
ti ha preso alle spalle, che ti travolge, ti leva il respiro, ti
fa ruzzolare
sulla sabbia bagnata, su quei passi che ti sembravano così certi
nella tua vita. E invece no. Non lo sono. Non più. Sono giorni che
passo davanti al suo portone. Sono giorni che la vedo uscire nei
modi
più diversi. Nell'unico modo in cui lei è. Bella. Bellissima.
Disordinata,
confusa, elegante, coi capelli raccolti, coi capelli lasciati
andare, giù, pazzi, ribelli. Con due ciuffi, con un vestito a
fiori, con
una salopette mezza calata, con un completo perfetto, con una
camicia
azzurra e il colletto tirato su e una gonna blu scura sotto. Con
dei jeans chiari, con un pinocchietto, con dei jeans strappati e
le cuciture
forti, che risaltano, che si fanno notare. Con tutti i suoi
vestiti
presi su Yoox. Gli accessori. I colori. La fantasia di sapersi
reinventare
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