Davide decise di stare subito allo scherzo. «Ok, allora chiamo Paoli, non c’è problema…»

Paoli era un imprenditore con cui si erano trovati diverse volte in competizione. Tancredi, pur rimettendo-ci economicamente, l’aveva sempre spuntata. E anche se sulla carta quegli investimenti erano stati fatti più per sfida che per altro, alla lunga erano diventati così vantaggiosi che ci aveva straguadagnato. Era incredibile, ma ogni cosa sulla quale Tancredi metteva le mani diventava un affare.

«Paoli?» Tancredi rise. «Ma ha ancora soldi da spendere? Allora non deve essere un grosso business… Sarà uno di quelli che ti piacciono tanto: compro, rivendo al volo e ci guadagno qualcosina…»

Davide rise. In effetti quel tipo di affare non era ma-le. Dovevi solo avere un po’ di liquidità e trovare la persona che in poco tempo comprasse quello che tu avevi fermato.

«No, no… Stavolta non spendi molto. Al massimo porti una bottiglia o dei fiori per la padrona di casa. Ti volevamo invitare per sabato sera, facciamo una cena qui da noi con i Saletti, i Madia e Augusto e Sabrina che so che ti stanno simpatici…»

Davide aspettò un attimo. Pensò a Tancredi che avrebbe portato un Cristal, anzi due visto che erano un po’ di persone. Ma non era questa la ragione per cui ci teneva a invitarlo. Gli avrebbe fatto veramente piacere vederlo e soprattutto sfatare in qualche modo l’assurda convinzione di Sara. Tancredi dall’altra parte del telefono si alzò dalla scrivania, guardò fuori dalla finestra. Il Golden Gate raccoglieva tutto il colore di quel sole che splendeva sulla Baia di San Francisco. Più tardi sarebbe andato a pranzo con Gregorio nel caffè di Francis Ford Coppola per assaggiare l’ultima annata del suo vino, il Rubicon. Avrebbe parlato direttamente con lui, voleva entrare in produzione con la Zoetrope e finanziare il suo prossimo film, chissà se glielo avrebbe permesso.

Sapeva che Coppola era un tipo che andava molto a simpatia, più che per soldi o per affari. “Meglio così”

pensò Tancredi. “Sarà più facile, gli sarò simpatico.” E

così con l’immaginazione entrò nel mondo del cinema e si figurò la scena.

La cinepresa avanza su un carrello e va a stringere sulla porta di un appartamento. Poi si ferma. Dettaglio di una mano che suona al campanello.

All’interno della casa Sara smette di posare alcune cose sul tavolo da pranzo e attraversa il salotto. “Vado io.” Arriva alla porta e apre senza chiedere chi è. Si trova di fronte un enorme mazzo di rose rosse, contornate da piccoli fiori bianchi di campo. All’improvviso spunta Tancredi.

“Ciao… Possiamo dimenticare quella notte?”

Sara rimane davanti a lui in silenzio. Da piano americano l’inquadratura lentamente stringe sul suo primo piano. Una musica sottolinea l’attesa per la sua risposta.

Tancredi guardò l’agenda sulla scrivania. «Dicevi il sera giusto?»

«Sì.» Fece scorrere l’indice per vedere se aveva impegni. Una serata al circolo ma niente di importante, anzi si ricordava di averla già disdetta. Poi ripensò alla scena di prima con i fiori in mano. Sara è ancora lì in silenzio.

Improvvisamente scuote la testa. “No. Non possiamo dimenticarla.”

Tancredi fece un sospiro. «Mi dispiace Davide, ho controllato ora l’agenda, sarò all’estero. Magari facciamo un’altra volta.»

«Ok, peccato.»


«Salutami tanto Sara e scusami con lei.»

«Certo.» Chiusero la telefonata. Davide avrebbe voluto dirgli: “Sara lo sapeva già”.

«Allora viene o no?» Sara comparve alle sue spalle.

«No, me ne sono ricordato dopo anch’io, me lo aveva già detto… Aveva un impegno.»

Sara sorrise. «Visto? Non ci vuole vedere insieme.»

Davide la raggiunse e la fece girare su se stessa ab-bracciandola. «Amore, ti prego, non ti fissare con questa storia. Tancredi è il mio migliore amico e non farebbe mai una cosa del genere.»

«Cosa?»

«Di averti in antipatia.»

Sara rimase un attimo in silenzio. «Può accadere, sai?

A volte le dinamiche sono così imprevedibili.»

Davide la lasciò andare e si sedette sul divano. Prese il telecomando e accese la tv.

«Sai, ho sempre creduto che invece a te fosse antipatico Tancredi.»

«E perché?»

«Ma non lo so, una sensazione. Un po’ mi dispiaceva e un po’ ne ero felice.»

«Perché?»

«Perché ho pensato, finalmente una donna alla quale Tancredi non piace, anzi le sta addirittura antipatico. Se ti fosse piaciuto magari se ne sarebbe infischiato della nostra amicizia, mia e sua, ci sarebbe passato sopra e avrebbe aggiunto anche te alla sua collezione privata…»

Poi la guardò e le sorrise. «E io sarei morto per questo.»

Sara rimase in mezzo al salotto in silenzio. Davide continuò a fissarla. Man mano che il tempo passava diventava una situazione strana. E lei si domandava se sarebbe riuscita a reggerla.

«Non mi è antipatico. Mi è indifferente. Diciamo che non mi piace come si comporta in certe circostanze. Comunque è un tuo amico e se sta bene a te…»


E detto questo andò in cucina. Davide girò canale, poi decise di aggiungere una considerazione.

«Ricordati però che è cambiato molto dopo la storia di sua sorella!»

Sara si sedette al tavolo. Si sentì improvvisamente svuotata. Era stato proprio da quel giorno che aveva cominciato ad amarlo e desiderato riempire la sua solitudine. Erano passati ormai diversi anni, eppure la passione di Sara non accennava a finire. Chi sa se mai sarebbe accaduto. Solo di una cosa era sicura. Davide, suo marito, era un ottimo immobiliarista ma un pessimo psicologo.


«Non così. Vedi che non stai tenendo il tempo?»

Sofia fece un respiro profondo. Ci voleva pazienza con Jacopo. Molta pazienza. Ma anche quelle lezioni erano importanti e poi guadagnare le era necessario.

«Ma così mi sembra troppo lenta, maestra…»

Sofia sorrise. «Ma se lui l’ha scritta, composta e im-maginata così, vorrà dire che gli piaceva con questo tempo, non credi? Guarda bene, l’indicazione è di per la semiminima! Ora arrivi tu, dopo più di duecento anni che Mozart ha scritto la sua Sonata in Do Maggiore e sembri su una pista di formula uno. Guarda che questo pezzo anche i grandi pianisti lo eseguono molto lento. Lento e preciso, Jacopo.»

Jacopo sorrise. Gli piaceva Sofia, non era come quelle insegnanti che aveva avuto prima, era più simpatica e poi era più giovane e soprattutto più bella. «Okeiii…»

Jacopo strascicò a lungo quell’okay. «Anche se oggi hanno fatto tante di quelle musiche del passato con tempi diversi che secondo me si può fare! L’hai mai sentito il Canone suonato da Funtwo con la chitarra elettrica? Anche nel mio ultimo videogioco c’è una musica pazzesca, la vuoi sentire?»

Si alzò infilandosi la mano nella tasca dei pantaloni, come se volesse tirar fuori chissà quale sorpresa.

«Ti credo» gli disse Sofia facendolo tornare a sedere.

«Tuo padre e tua madre però non sarebbero contenti se giocassi ai videogiochi con te…»


«Già… Anche perché perderesti.»

«Infatti, e non ci tengo assolutamente. E soprattutto loro vogliono che tu a Natale prossimo sappia suonare almeno un pezzo dall’inizio alla fine e senza troppi errori! Cosa che per adesso…» gli scompigliò i capelli sulla testa, «vedo molto improbabile. Forza, l’attacco dell’andante.» Sofia indicò il foglio in alto sul penta-gramma. «E tieni il tempo.»

«Ok.» Jacopo fissò il punto esatto da dove partire e cominciò a suonare. Ogni tanto sbuffava portando in fuori il labbro per levarsi i capelli dal viso. Era stata Sofia, quando glieli aveva scompigliati, a ridurli così.

Lui odiava che gli toccassero i capelli in realtà, o almeno lo odiava quando glielo facevano nonno o papà, ecco sì, soprattutto loro. Quando lo faceva Sofia invece non gli dava fastidio. Che strano. Ora doveva impegnarsi, e suonare al meglio quel pezzo anche se era sempre dell’idea che Mozart dovesse essere più veloce. “Ma se a lei piace così, cioè, se a Mozart piaceva così” si corresse mentalmente. Si concentrò per tutte le quattro pagine e non sbagliò quasi nulla.

«Bravo! Oh, così mi piaci!»

Gli strinse le spalle portandolo a sé. Jacopo quasi cadde dallo sgabello ma fu felice di potersi perdere in quella maglia, di respirare quel buon profumo e soprattutto di poggiarsi su quel morbido seno.

«Ok…» Sofia lo allontanò dolcemente dopo aver in-tuito che si stava trattenendo un po’ più del dovuto.

«Allora ci vediamo la prossima settimana.»

«Va bene…» Jacopo si alzò e prese la sua giacca dall’attaccapanni, poi gli venne un pensiero che in qualche modo lo accese. Forse aveva voglia di giocare ancora con lei. «Ehi Sofia, tu stai su Facebook?»

Anche Sofia si stava rivestendo. «No.»

«Ma nemmeno su Twitter?»

«No.»


«Insomma, non ti si può trovare da nessuna parte?»

Jacopo era deluso, se non altro avrebbe potuto sapere quanti anni aveva o cosa le piaceva, saperne un po’ di più su di lei, magari scriverle.

«Ti dico solo una cosa, Jacopo, ho un computer a casa, ma a essere sincera non lo uso mai…»

L’unico che usava quel computer era Andrea. Rappresentava la sua possibilità di uscire, di avere contatti, vedere gente, filmati, curiosità. Vivere. Anche perché poteva farlo solo così. Ma non era certo il caso di dirlo a quel ragazzino.

«Va be’.» Jacopo alzò le spalle. «Peccato. Non sai co-sa ti perdi. Lì c’è il nuovo mondo, siamo nell’era ….»

Poi quasi per prendersi la rivincita: «Ecco perché ti sembra giusta suonata in quel modo, appartieni all’era analogica».

«Sì sì…» Sofia si mise a ridere uscendo dalla stanza.

«Salutami i tuoi. A mercoledì.»