"Mi ha fatto giurare di non dirtelo. Come ho fatto? È lei che
mi ha voluto conoscere. Vedevo sempre questa ragazza che aspettava
sotto casa. Veniva spesso. All'inizio ho pensato che aspettasse
qualcuno che abitava nel palazzo. Poi però quando partivo con la
macchina la vedevo andar via. "
"E allora?"
"Allora un giorno me la trovo al supermercato e ci siamo urtate.
Non so se è stato un caso. Abbiamo fatto amicizia... Ci siamo
messe a parlare..." Tossisce. Si sente male. Lo sforzo è stato
tanto.
Cerca nell'aria dell'ossigeno, della vita, qualcosa... ma non
trova
nulla. Poi mi guarda e i suoi occhi pieni d'amore, di dolcezza,
occhi
di una donna che vorrebbe gridare. Ehi, che fai? Perché mi
guardi così? Sono tua mamma! Non puoi provare compassione per
me. E allora io torno suo figlio, egoista, ragazzino, insomma
proprio
come mi vuole lei.
"Allora, mi racconti bene?"
"Sì. Abbiamo fatto amicizia, non so come, ma abbiamo cominciato
a chiacchierare... Lei non sapeva che l'avevo già vista sotto
casa. Be', insomma, non ne sono tanto sicura. Fatto sta che le ho
raccontato un po' di me, di papà, di Paolo, di te..."
"Cosa le hai raccontato di me?"
"Di te?"
"Eh, di me e di chi sennò?"
"Che ti voglio bene, che mi mancavi, che eri andato fuori, che
saresti tornato... alla fine sembrava incuriosita della nostra
storia.
E chiedeva sempre se avevi telefonato... se ti eri fatto sentire."
"E tu?"
"E io che potevo dirle? Non sapevo mai niente di te. Poi ho saputo
che saresti tornato quel giorno, quando me lo ha detto Paolo
che ti sarebbe venuto a prendere all'aeroporto... E allora quando
con Ginevra ci siamo sentite..."
"Vi siete sentite? Ma perché, vi telefonavate pure?"
"Sì, c'eravamo scambiate il numero. Ma che cosa c'è di strano,
scusa? Eravamo diventate un po' come delle amiche."
Non riesco a crederci. Che strano. Sembra tutto così strano.
"Allora?"
"Allora che?"
"Niente, gliel'ho detto."
"E lei?"
"E lei ha continuato a chiacchierare, come se nulla fosse, ha
detto che si era iscritta e che andava in piscina... Ah sì, mi ha
fatto
ridere perché mi ha chiesto se volevo andare con lei... però se ci
penso una cosa strana c'è..."
Cosa?
"Da quando sei tornato sono andata spesso al supermercato..."
"E allora?"
"Da allora, non l'ho mai più incontrata."
La guardo. Rimango in silenzio. Poi annuisco e sorrido. Lei
vorrebbe
rispondere al mio sorriso, ma un'altra ondata di dolore le fa
chiudere gli occhi. Più a lungo stavolta. Le prendo la mano. Lei
me
la stringe con forza, una forza inaspettata. Poi allenta la presa
e riapre
gli occhi, stanca, più stanca di prima, accenna un sorriso.
"Stefano... ti prego..." Mi indica un bicchiere lì vicino. "Mi
porti
un po' d'acqua, per favore."
Prendo il bicchiere e mi alzo. Faccio alcuni passi e mi sento di
nuovo chiamare.
"Stefano..."
Mi giro. "Sì?"
"A questa mia amica Gin... mandale dei fiori, dei bellissimi
fiori."
Si poggia sul cuscino e mi sorride.
"Sì, mamma, certo..."
Esco dal reparto, trovo subito il bagno con l'acqua potabile che
mi aveva indicato Martina. Dopo averla fatta scorrere un po'
riempio
il bicchiere così come mi aveva insegnato lei, né troppo pieno
né troppo vuoto. Poco più della metà, la giusta misura. Rientro
nel
reparto. Mi bastano alcuni passi. La vedo lì, tranquilla, che
riposa.
Al centoquattordici. Con un sorriso leggero sul viso e gli occhi
chiusi,
così come l'avevo lasciata. Ma non mi ha voluto aspettare. Mamma
ha sempre odiato gli addii. E non so perché mi viene in mente
quando sono partito con il treno per la prima gita scolastica per
Firenze.
Le altre mamme erano tutte lì con i loro fazzolettini, bianchi
o colorati o quello che avevano sottomano, per salutare i
ragazzini
che si affacciavano dai finestrini degli scompartimenti. Io
mi sono affacciato. L'ho cercata giù sulla pensilina tra la gente,
tra
le altre mamme ma lei non c'era più. Non c'era già più. Proprio
come
adesso. Se ne è già andata. Mamma. Poggio il bicchiere sul
comodino
vicino a lei. Ti ho portato l'acqua, mamma. Non l'ho riempito
troppo proprio come tu mi hai insegnato. Mamma. L'unica
donna che non smetterò mai di amare. Mamma. Quella donna che
non avrei mai voluto perdere. E che invece ho perso due volte.
Mamma... Perdonami. Ed esco così, in silenzio, tra letti numerati,
tra persone sconosciute. Distratte dal loro dolore, non guardano
il
mio. Un allarme suona lontano. Due infermieri mi superano
correndo.
Uno mi urta senza volerlo, ma non ci faccio caso. Vanno da
mia madre. Stupidi, non sanno che è partita. Non la disturbate.
Lei
è così, non ama gli addii, non si gira indietro, non saluta.
Mamma.
Mi mancherai, più di quanto non mi sei già mancata in questi anni.
"Se quel che mi ha ferito anche te ferì, io ti penso in un campo
di fragole, io ti penso felice così, a ballare leggera,
bellissima, così..."
Parole di una canzone che riaffiora. Per te mamma, solo per
te. Portale via, tienile strette ovunque stai andando. Balla
bellissima
sul quel prato di fragole, libera finalmente da tutto quello che
ti aveva imprigionata qui. Sto piangendo. Scendo giù. Non c'è
l'infermiere
della postazione. C'è una donna. Mi guarda, curiosa per
un attimo, ma non dice niente. Ne avrà vista di gente uscire senza
nascondere il proprio dolore. Non ci fa più caso. Le sembriamo
tutti uguali, è quasi annoiata dalle nostre stupide lacrime che
non
possono niente. Esco. Ormai è pomeriggio. Il sole ancora alto, il
cielo limpido. Una giornata come tante altre ma diversa da tutte e
per sempre. Vedo arrivare mio padre e mio fratello. Sono lontani.
Chiacchierano sereni, sorridono. Chissà di cosa parlano. Non lo so
e non lo voglio sapere. Beati loro che ancora non sanno. Pochi
momenti
prima del dolore inevitabile, dell'impotenza totale,
dell'accettazione
definitiva. Che ne godano ancora. Ancora tranquilli e
felici, a loro insaputa. Ancora per poco. Cambio strada e mi
allontano.
Ho altro da fare adesso. Mi lascio andare, mi perdo nel vento.
Vorrei che il mio dolore diventasse leggero. Ma non è così. E ci
capito per caso, senza volerlo, giuro. Ora come ora non direi mai
una bugia. E vedo quel ragazzino con un suo amico.
"Allora ci si vede al Campetto alle quattro, va bene? Ehi, Thomas,
dico a te, va bene?! "
"Sì sì, ho capito, alle quattro, mica sono sordo."
"Sordo no, ma scemo sì. Tanto è inutile che stai lì, Michela non
arriva. "
"Ma chi ti dice che aspetto Michela! Cerco Marco, che mi doveva
riportare il pallone! "
"Sì sì, il pallone..."
A volte ci si trova al posto giusto nel momento giusto. Lo guardo.
Non mi pare certo uno che ha il diritto di snobbare miss
"sgnappetta"
degli Stellari. Martina almeno una possibilità se la merita.
Almeno una. Mi avvicino. Non ci fa caso più di tanto. Per un
attimo
mi guarda incuriosito, cerca di mettermi a fuoco per vedere se
mi conosce, se mi ha già visto da qualche parte. Allora gli do uno
schiaffone in pieno viso. E rimane così senza parole. Mi guarda
sbalordito,
ma senza piangere, aggrappato alla sua dignità. Poi gli dico
quello che dovevo dirgli. E lui ascolta in silenzio, senza
fuggire.
Mi piace quel ragazzino. Poi mi allontano in moto. Guardo nello
specchietto. E lo vedo diventare sempre più piccolo. Formica in
un mondo ancora da scoprire e da capire. Con la mano si massaggia
la guancia sinistra. Rossa come quella pizza buona che mi aveva
offerto Martina. E per un attimo il fatto che sono entrato già in
quelli che saranno i suoi ricordi mi fa sentire al sicuro. Vivrò
un po'
più a lungo. Poi penso a mamma, alle sue ultime parole, al suo
consiglio.
Sorrido. Sì, mamma. Certo, mamma. Come vuoi tu, mamma.
E ubbidiente come non lo sono stato mai, come quel figlio che
avrei tanto voluto essere, entro nel negozio più vicino.
Capitolo 77.
Poco più tardi. Casa Biro.
"Ginevra, posso entrare?" Gin apre la porta della camera a sua
madre. "Che c'è mamma?"
"Oggi pomeriggio hanno portato queste per te."
Avvolta da un grande mazzo di rose rosse la mamma si affaccia
nella sua camera, le sorride poggiandole sul letto.
"Hai visto che belle? E poi guarda... c'è una rosa bianca nel
mezzo. Sai che vuol dire vero?"
"No, che vuol dire?"
"È una richiesta di scuse. Qualcuno ti ha fatto qualcosa, qualcuno
si deve scusare?"
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