Dov’era stata per tutti questi anni? Come mai non l’aveva mai incontrata?
Uscì dalla stanza. Richiuse piano la porta. Si incamminò per il lungo corridoio. Dalla grande vetrata si vedevano alcuni grattacieli. Alcune nuvole lontane sembravano come sospese in mezzo a quegli edifici.
Continuò a camminare. Sentiva solo il rumore dei suoi tacchi lungo il corridoio. Non c’era nessuno, non una voce. Porte chiuse, nessun segno, nessun fiocco, nessuna pianta. Un corridoio perfettamente pulito, freddo.
Arrivata in fondo vide una porta chiusa con un vetro opaco. C’era qualcuno che si muoveva lì dietro. Dovevano essere le infermiere del piano, quelle che riface-vano le stanze la mattina, che portavano e ritiravano i carrelli con i pasti. Erano lì pronte ad arrivare per qualsiasi urgenza.
Sofia passò oltre. Si ritrovò agli ascensori. Lesse le indicazioni per i diversi piani. Quando finalmente la trovò, entrò nell’ascensore e spinse un bottone. Ne aveva bisogno. Arrivata al piano uscì e cominciò a camminare.
Poco dopo davanti a quella porta si fermò. L’aprì lentamente cercando di non disturbare nessuno. La cappella era quasi vuota. C’era solo una donna anziana in fondo sulla destra. Era inginocchiata e muoveva tra le mani il suo rosario. Erano otto anni che Sofia non metteva piede in un luogo sacro per pregare. L’ultima volta era stata quando Andrea tra la vita e la morte veniva operato.
L’anziana donna uscì dalla cappella. Accennarono un sorriso, così, per una certa solidarietà, perché cre-devano nella fede o nella speranza, perché comunque erano lì. Sofia rimase sola ma non ebbe il coraggio di inginocchiarsi. Si sedette nell’ultima fila e rimase con la testa bassa a fissare il pavimento. La cappella era moderna. Grandi finestre rettangolari con mosaici dai diversi colori viola. Un Gesù stilizzato al centro della vetrata più importante. Poco più sotto un grande cro-cifisso in ferro satinato con un Cristo dal corpo color carne ma un viso appena accennato. “Eppure, tutto questo” pensò Sofia, “ha lo stesso valore di mille altre chiese sparse per il mondo. Il Signore che trovi qui è lo stesso della parrocchia vicino a casa. Ma dovunque Egli sia, avrà tempo per te? Ha voglia di ascoltarti? Di prenderti in considerazione?”
Sofia alzò la testa e guardò quel Gesù stilizzato, poi il Cristo sulla croce moderna. I suoi occhi erano buoni, sembravano fissarla. Allora quasi si vergognò, perché sapeva che Lui comunque conosceva già quello che lei Gli voleva chiedere. Eppure era come se volesse sentir-lo da lei, con chiarezza, per non potersi sbagliare. Allora Sofia lo disse nel suo cuore, ad alta voce anche se in silenzio. “Vorrei essere felice.” E fu come se improvvisamente quel Gesù stilizzato le fosse andato vicino e anche quel Cristo moderno fosse sceso dalla croce, e le fossero corsi incontro, lì, in piedi, davanti a lei, per sentire, per capire meglio. Cosa vuol dire questa richiesta?
“Vorrei essere felice?” Ma cosa intende esattamente?
Era come se la guardassero negli occhi, come se fru-gassero nel suo cuore, come se fossero lì a scavare, a cercare, a voler trovare il vero senso di quelle parole.
Allora Sofia abbassò la testa e in quello stesso istante si sentì sporca come non mai. Si vergognò di quella sua richiesta. Lei voleva lavarsene le mani, voleva che la sua felicità gliela desse direttamente Dio o meglio la morte.
Sì, perché se l’operazione non fosse riuscita, lei sarebbe stata libera. Senza dover parlare, spiegare, senza nessuna responsabilità. E soprattutto senza dover scegliere.
Se Andrea fosse morto, lei non si sarebbe potuta sentire in colpa per la propria felicità.
Allora si vide all’interno di quel tribunale, seduta al banco degli imputati. Il giudice invitò l’aula a fare silenzio. “Avete raggiunto un verdetto?”
“Sì, Vostro Onore.” Il giurato teneva in mano la sen-tenza, la guardò per qualche secondo, poi la lesse: “Innocente colpevole”.
Sofia prese l’ascensore, tornò nella camera. Rimase lì, in silenzio, seduta sul divano, con la testa tra le mani. Sentiva scorrere i secondi sul grande orologio appeso sopra la porta. Ogni singolo scatto della lancetta era comunque l’avvicinarsi di una fine.
Più sotto, molto più sotto, nel freddo di una sala operatoria, il chirurgo e i suoi assistenti si muovevano intorno a quel tavolo. Era come una partita a un tavolo da gioco, solo che l’uomo che poteva perdere era uno solo.
Erano passate più di dieci ore. Sofia aveva un bicchiere in mano, lo aveva appena riempito per bere quando bussarono alla porta della stanza. Si fermò a mezz’aria e lo posò sul tavolo lì vicino.
«Avanti…»
La maniglia si abbassò lentamente poi comparve un’infermiera. Era una donna che non aveva mai visto, rimase un attimo sulla soglia, come se non sapesse cosa dire, come se cercasse le parole giuste. Poi il professore la superò.
«E andato tutto benissimo.»
Alcune ore dopo entrò il letto, trasportato da altri infermieri con sopra Andrea che dormiva, lo sistemarono al suo posto, disposero meglio le flebo. Poi l’anestesista gli diede due schiaffetti per controllare che fosse effettivamente sveglio e Andrea reagì.
Allora tutti uscirono dalla stanza. Sofia si avvicinò al letto. Andrea aprì lentamente gli occhi e la vide. Poi mosse piano piano la mano sulle lenzuola verso di lei, era come se la cercasse, se avesse bisogno di sentire clic*
era tutto vero. Allora Sofia gli prese la mano e la strinse forte. Andrea chiuse gli occhi, più tranquillo sorrise e in quel momento Sofia si sentì morire per quello che aveva osato chiedere al destino.
Villa Ferri Mariani.
Il silenzio e l’eco di quelle stanze vuote. Il grande salone con il camino al centro. La scala che saliva su verso le loro camere.
Tancredi era lì sotto. Gli sembrava quasi di udire l’allegria di quelle feste, il rumore delle portate, i piatti, il vino, lo champagne, i dolci appoggiati su quei tavoli. Quelle date importanti, i diciott’anni di suo fratello Gianfilippo, di Claudine, i suoi. L’eco dei ricordi di una famiglia felice.
“Venite, apriamo i regali, è quasi mezzanotte…”
I tanti Natale passati tutti insieme.
“Ecco, disegniamo le uova. Facciamole come se fossero tanti personaggi, il vigile, la ballerina, un cow-boy, una squaw…” Loro bambini insieme ai genitori a ritagliare dei fogli colorati, a vestire quelle uova per Pasqua, a dipingerle con i colori e i pennelli, usando i pennarelli.
“Guardate qui, c’è il salame tagliato a fette, la corallina. E questo è un ciambellone di formaggio che ho fatto fare per voi…”
Sua madre Emma e le sue premure.
“Ma papà, non è giusto! Quella pecorella se la sta mangiando tutta Gianfilippo!”
“Hai ragione. Lasciane un po’ a tua sorella…”
Suo padre Vittorio e il suo tentativo di farli andare d’accordo.
“Ma papà, la pasta reale ingrassa e lei è già così ro-tonda!”
Rise di quel ricordo. Non era vero. Claudine era magra, sempre in forma, bellissima. Glielo aveva detto perché voleva mangiarne un po’ anche lui. Era il più piccolo e si sentiva sempre il meno considerato.
Claudine. “Che fine hai fatto, Claudine? Perché te ne sei andata senza salutare? Non si fa così. Non è giusto.”
Ricordò quella sera, il dolore di non essere rimasto ad ascoltarla. Il suo ultimo sorriso, quando forse aveva già deciso. “Cosa mi volevi dire, Claudine?”
Salì le scale. Arrivò al piano di sopra. Attraversò il lungo corridoio che portava alle camere da letto, la sua, quella di Gianfilippo e infine l’ultima stanza in fondo, la camera di Claudine. Aprì lentamente la porta. Qualche ragnatela, un po’ di polvere. In quella casa non abitava più nessuno da molto tempo. I suoi genitori vivevano in una villa sulla Costa Azzurra. Lì il tempo era migliore, avevano deciso di trasferirsi perché suo padre aveva avuto dei problemi respiratori. Si sentì in colpa. Era da almeno due mesi che non li sentiva. In realtà ne erano passati sei. Dopo la morte di Claudine nulla era stato più facile tra loro. Sentiva ogni tanto solo Gianfilippo.
Entrò nella camera di Claudine. Era intatta. Tutto allo stesso posto. I peluche sul letto, qualche pupaz-zo sulla scrivania, le tende color fucsia con i fiocchi di colore più chiaro che le tenevano raccolte. Tutto come sempre. Poi improvvisamente si accorse di una cosa. Se ne rese conto solo ora che la rivedeva a distanza di tanti anni. Quella camera era di una bambina. Dappertutto c’erano piccoli oggetti, caramelle, bambole, peluche, penne con il coperchio buffo. Quando Claudine si era suicidata aveva vent’anni. Come mai non ci aveva fatto caso prima? Claudine non era mai cresciuta. Non voleva crescere. Ma cos’era che la spaventava?
Aprì i cassetti, frugò tra le sue cose, qualche foto, qualche boccetta di profumo, delle chiavi, tanti anelli senza valore, delle penne colorate, delle gomme, qualche cartolina, qualche lettera. Tutta quella roba l’aveva guardata, girata e rigirata, controllata per almeno due anni dopo quello che era successo. Aveva letto e rilet-to quelle cartoline e quelle lettere mille volte, ma non aveva trovato mai nulla, né un indizio né un pensiero, niente che potesse far pensare al perché di quella scelta.
Poi, all’improvviso, quello che non era successo in tutti quegli anni, accadde.
Tancredi stava guardando quella bacheca, piena di foto, i ricordi delle feste di diciott’anni, quella di Claudine, delle sue amiche, dei suoi amici, altri istanti della sua vita, momenti di scuola, i pochi viaggi, le tante esta-ti, fino a quando notò una foto. Lì Claudine era piccola, avrà avuto sì e no undici anni e quella foto gliel’aveva fatta lui. La staccò dalla bacheca e la guardò meglio.
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