È indirizzata a te. Perché non me lo hai detto?»

«Cosa dovevo dirti?»

«Te la sei scopata?»

«Tu che pensi?»

«Potevi avere mille donne. Perché proprio lei? Per la tua collezione?»

Tancredi bevve un altro po’ del suo caffè. L’interfono suonò. Tancredi rispose. «Sì? Chi è?»

«Hai bisogno di me?» Era Savini.

«No grazie. E tutto a posto.» Chiuse l’interfono poi fece un sospiro, si appoggiò allo schienale della poltrona.

«Vuoi sederti?»

«Preferisco restare in piedi. Ti ho fatto una domanda. Te la sei scopata?»

«Lei cosa ti ha detto?»

«Mi ha’detto di sì.»

Tancredi rise.

«Cosa c’è da ridere?»

«Ha sempre odiato la nostra amicizia. Credo che le desse fastidio, era gelosa di noi come se io fossi la tua amante.»

«Lei ti amava.»

«Non ha mai amato nessuno. Mi voleva perché non poteva avermi.»

«Perché sei così sicuro?»


«Perché sono un tuo amico. Anche se avessi provato qualcosa per lei, provavo qualcosa di più per te. E lei questo lo sapeva.» Tancredi lo guardò. «Mi dispiace, non me la sono scopata, e non perché non mi piacesse…»

Davide lo guardò in silenzio per un po’. Tancredi resse tranquillamente il suo sguardo. Era sereno, non c’era stato assolutamente nulla. Davide fece un lungo sospiro.

«Ora capisco alcune cose.»

Fece per andarsene.

«Salutamela.»

«Non so dove sia. Se ne è andata.»

«Riprenditi la lettera.»

«E stata lei a dirmi di consegnartela. È per te.»

Davide uscì dalla stanza. Tancredi rimase solo. Improvvisamente il telefono squillò. Era suo fratello. Non aveva voglia di rispondere, lo avrebbe richiamato.

Si versò dell’altro caffè, prese la lettera dalla scrivania, la strappò e la buttò nel cestino. Poi aprì la cartellina, si mise a sfogliare le foto. Sofia che rideva. Sofia che correva sulla spiaggia. Sofia che andava in bicicletta.

Sofia che usciva dall’acqua con un costume chiaro. In trasparenza si vedevano i suoi capezzoli, il suo corpo, le gambe forti. Rideva in quella foto portandosi indietro i capelli bagnati. In un’altra era da sola, seduta su un lettino, guardava il mare. Era come assorta, aveva un velo di tristezza. Si era tolta i grandi occhiali da sole neri e guardava lontano come se cercasse, sul filo di quell’orizzonte, chissà quale risposta. Osservò meglio quella foto. I suoi occhi, la sua espressione. Particolarmente forte, intensa. Cosa le era passato per la testa in quel momento? Stava prendendo una decisione? Facendo una scelta? Posò la foto.

Si ricordò di quel pomeriggio, avevano chiacchierato leggeri come se si conoscessero da sempre. E quella sera lui per la prima volta si era aperto, le aveva raccontato tutto di Claudine. Sofìa era rimasta in silenzio poi aveva cercato di aiutarlo. Aveva parlato a lungo, aveva cercato di allontanare da lui quel senso di colpa. Ma non era facile. Si ricordò una sua frase.

“E strano che non abbia lasciato niente. Quando si sta così male si ha la necessità di scrivere, di dirlo almeno a se stessi.”

Claudine avrebbe voluto dirlo a lui. Era a lui che si era rivolta, a suo fratello. Ma suo fratello non aveva trovato il tempo per lei. E questo Tancredi non riusciva ad accettarlo. Non riusciva a perdonarsi. Era morta per colpa sua. Era stato lui l’ultimo a vederla, l’ultimo che avrebbe potuto farle cambiare idea.

Rimase in silenzio. Quello che gli aveva detto Sofia era vero, lui non voleva amare. Ma c’era una verità ancora più grande, lui non riusciva ad amare. Non poteva essere di nessuno perché apparteneva a quella colpa.

Bevve un po’ di caffè. Quel dolore lo aveva accompagnato per anni, non lo lasciava andare, non lo abbando-nava mai. Ruotò lentamente la poltrona e si ritrovò di fronte alla vetrata che dava sulla Seventh Avenue. Nella strada principale sotto di lui, il traffico era lento nell’ora di punta. Una lunga fila di taxi procedeva quasi a passo d’uomo sulla destra, i marciapiedi erano affollati di persone che camminavano veloci. Lì sotto, in qualche metro quadro si sviluppavano tutte le ultime tendenze della Grande Mela. Eppure nulla cambiava. In qualche modo tutto era sempre uguale. Si ricordò di un’altra frase di Sofia.

“Ma dopo la morte di Claudine, non è successo nulla di strano?”

“No. Tutto come prima, è rimasto tutto esattamente uguale. “

Questo invece non era esatto. Aveva ripensato a tutto quel periodo subito dopo la morte di Claudine. Co-me poteva non averci fatto caso? In effetti qualcosa di strano era avvenuto, un piccolo cambiamento, forse in-significante, c’era stato, ma andava verificato. Uscì dalla stanza dell’ufficio e incontrò Savini.

«Che notizie hai?»

«Sono arrivati, hanno preso alloggio nella al quinto piano. In mattinata faranno le analisi e i controlli, credo che l’operazione sia per domani mattina alle nove.»

«Ok.» Tancredi passò a Savini un foglio.

«Voglio sapere tutto su questa persona il prima possibile. Conto corrente, ultimi acquisti, dove abita, cosa fa nella vita…»

Savini lesse il nome. Non gli era nuovo. Ma decise di eseguire quello che gli aveva chiesto senza chiedere spiegazioni.

«E poi fai preparare l’aereo.»

«Andiamo ad Atlanta?»

«No, quando avrai scoperto dove si trova questa persona, andremo a parlarci.»


La camera all’ospedale Shepherd Center di Atlanta era composta da tre stanze. La prima per il paziente era molto grande, aveva un televisore a muro, un armadio e una bellissima vista sul campo da golf Bobby Jones. Nel salotto accanto invece si trovavano un mobi-letto bar, un tavolo con quattro sedie, un altro televisore, un divano per gli ospiti, mentre nell’ultima il bagno.

Il servizio era impeccabile. C’erano sempre fiori.

Uno dopo l’altro alcuni medici visitarono Andrea, gli spiegarono i vari passaggi dell’operazione usando termini tecnici che lui si fece ripetere più volte per capire bene di cosa si trattasse. Poi arrivò il professore. Mishuna Torkama era un uomo di piccola statura ma, quando entrò, tutti smisero di parlare.

«Buongiorno. Lo Shepherd Center è felice di averla qui.» Poi gli sorrise con grande sicurezza e improvvisamente Andrea si sentì più tranquillo. Ascoltò la sua spiegazione. L’operazione era complicata, questo non lo si poteva nascondere, usavano le staminali, sarebbe durata un tempo che variava dalle sei alle dodici ore.

In realtà era un tempo molto indicativo, un intervento era durato quattro ore e un altro ventiquattro, ma tutti erano riusciti perfettamente. Un solo paziente era dece-duto, ma per complicazioni successive all’operazione.

«Ma gli altri interventi hanno avuto degli esiti eccel-lenti e una capacità di ripresa miracolosa» concluse Mishuna Torkama sorridendo di nuovo, la sua affermazione avrebbe dovuto fugare ogni minimo dubbio. «A più tardi.» Lo salutò e uscì dalla stanza. Altri medici porta-rono i risultati delle analisi, dell’elettrocardiogramma e di tutte le prove che Andrea aveva sostenuto nei giorni precedenti.

«Allora non ci dovrebbero essere problemi. Lei comunque deve firmare questi fogli.»

Un medico gli fece firmare il consenso informato dove erano elencate tutte le possibili complicazioni. Andrea doveva dichiarare ufficialmente di esserne al corrente.

Quando se ne fu andato anche l’ultimo professore, rimasero soli.

«Bene, mi sembra di aver consegnato la mia vita al patrimonio dell’umanità, o meglio ai tentativi di Mishuna Torkama!»

«Perché dici questo?»

«Hanno voluto togliersi qualsiasi tipo di responsabilità. Insomma era come dire: “Signori, noi ci proviamo, poi come va va, con questa cavia.”»

Sofia cercò di metterla sullo scherzo. «E dai, non dire così! Sono dei professionisti e poi non si è mai sentito di un uomo che mette il suo corpo a disposizione per la ricerca e che, invece di essere pagato, paga lui!»

«Già… E quanto paga!»

Sofia lo tranquillizzò. «Amore, il professor Mishuna Torkama sarà bravissimo e sono sicura che in questo super ospedale non c’è una persona che non sia preparata…»

Andrea pensò a quell’unico caso di morte. Si chiese se anche quel paziente avesse firmato tutti quei fogli e se anche per lui ci fosse stata la sua stessa équipe. Decise che non era il caso di farlo presente a Sofia. Aveva fatto di tutto per portarlo fin lì. Aveva scritto all’ospedale, cercato i documenti necessari, seguito ogni singolo dettaglio. E poi aveva trovato tutti quei soldi… Fece un sospiro. Aveva la speranza di una nuova vita, questa era l’unica cosa che contava, non poteva distruggere tutto con il suo cinismo.

«Hai ragione…»

Avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro ma non fe-ce in tempo. Arrivarono due infermiere. Entrarono con un sorriso.

«Andrea Rizzi? Eccoci qui, è ora.»

Andrea non rispose nulla, sorrise anche lui ma non era certo rilassato come loro. Gli sembrava più una formula di quelle esecuzioni capitali all’americana piuttosto che la sua operazione. Le due infermiere sganciaro-no il letto dal muro e sbloccarono le ruote.

Andrea fece appena in tempo a guardare Sofia.

Lei gli strinse forte la mano.

«Ci vediamo dopo, amore. Ti aspetto qui.»

Andrea stava sudando freddo. Deglutì. Aveva la bocca asciutta, riuscì soltanto a farle un sorriso stentato. Poi il letto fu spinto fuori dalla stanza, iniziò il suo tragitto attraverso un lungo corridoio poi scomparve nell’ascensore. Andrea aveva le infermiere alle sue spalle. Non poteva vederle. Chiuse gli occhi e fece un lungo respiro, poi l’ascensore si riaprì. Erano scesi molto in basso rispetto all’edificio, alla fine di un altro lungo corridoio, dove l’aria era molto più fredda, si aprirono due grandi porte e il letto fece il suo ingresso nella sala operatoria.