Sofia si mise al pianoforte. Già da ragazza era invi-diata per la sua straordinaria capacità di riscrivere senza esitazione, sulla chiave di basso e sulla chiave di violino, tutto il brano che stava studiando, senza guardare per un solo momento la tastiera. Eppure ebbe un brivido.
Davanti a lei si visualizzarono immediatamente le pagine di Après une lecture de Dante di Franz Liszt, uno dei pezzi più difficili del repertorio pianistico di tutti i tempi. Attaccò le sei ottave a scendere, maestose, definitive. E poi riempì quella stanza di una pioggia di note con una passionalità travolgente: scale cromatiche, foreste di semicrome, accordi retti e contrari a una velocità impensabile, potenti accordi ribattuti con stacchi di sinistra impossibili.
La pelle di quel bellissimo corpo iniziava a rilucere sotto lo sforzo spasmodico, il viso, le spalle, i seni ormai madidi di sudore e le mani invece perfette, asciut-te, inarrestabili. Davanti a sé lo sguardo inchiodato a uno spartito nero di note che non c’era, che solo lei vedeva, battuta dopo battuta, e che avrebbe scoraggiato qualsiasi pianista pur bravo, pur eccellente. E all’improvviso fu come se Liszt, il grande virtuoso, si fosse seduto accanto a lei, quasi stupito delle potenzialità che lui stesso, autore e acclamato interprete di quella prodi-giosa musica, non aveva saputo vedere, intuire.
Il suono dello Steinway adesso spaccava quella sala, e Tancredi non riusciva a pensare a nulla — lui, sempre perfettamente padrone anche delle situazioni più difficili e rischiose. Quella musica gli stava scavando l’anima e quella creatura al piano si era trasfigurata, non la controllava più, non era più la dolce Sofia delle notti d’amore, delle conversazioni appassionate, delle risate complici. Per la prima volta sentì l’amore non tra due persone ma piuttosto l’amore assoluto.
Quando Sofia staccò l’ultimo accordo, Tancredi capì che il controllo che pensava di avere sulla vita di lei e degli altri era un’illusione e si sentì stranamente sollevato.
Allora la guardò in un modo completamente nuovo, più sereno, finalmente lucido. Era Lei, lei con la elle maiu-scola, lei e basta. Si alzò, si accostò al pianoforte e con semplicità la accarezzò sulla guancia. Da lì a poco sarebbero stati loro due di nuovo, ma forse mai più gli stessi.
«Mi sono emozionato come non mi è mai accaduto nella vita.»
Sofia lo abbracciò. Era completamente nuda, gli teneva le braccia dietro la schiena all’altezza della vita eppure sembrava tutto naturale, priva di malizia malgrado i suoi seni fossero illuminati dalla luna e i suoi capezzoli turgidi. Erano tutti e due emozionati. Rimasero a lungo in silenzio fino a quando Tancredi le disse: «Andiamo a fare un bagno in piscina».
Poco dopo erano in acqua. Sofia si rilassò, piano piano svanì la tensione di quell’esecuzione, di quella difficilis-sima prova. Nuotò verso di lui e lo baciò. L’acqua era calda, le loro gambe si intrecciarono. Sentì subito salire la sua eccitazione, come quella di Tancredi. Poco dopo facevano l’amore dolcemente, come sospesi sull’acqua.
Più tardi continuarono in camera con passione, senza dire una parola. Ogni sguardo, però, era pieno di desiderio, di sesso, di voglia, era come se fosse pieno di mille parole.
Quando Sofia si svegliò era sola. Preparò la borsa.
Scese per fare colazione, per salutarlo, ma trovò solo una bellissima rosa rossa dal gambo lungo. Un biglietto era poggiato lì vicino.
“Perte. Solo per te.”
Quando finì la colazione, Cameron, la ragazza che l’aveva accolta al suo arrivo, si presentò al tavolo.
«Quando vuole l’accompagno alla spiaggia.»
«Grazie.»
Poco dopo la macchina elettrica si fermò al pontile più grande. Un motoscafo la stava aspettando con il motore acceso. Sofia scese e salì a bordo. Caricarono la sua valigia e il suo beauty. Poi il motoscafo partì, fece una curva e piano piano si allontanò dalla spiaggia, prese il largo andando verso terra.
Sofia si girò e guardò l’isola. Tancredi era sulla torre dove avevano cenato la sera prima. Aveva le mani in tasca e i capelli al vento, ma guardava da un’altra parte, verso il sole.
Il taxi si fermò. Sofia pagò e scese.
Si ritrovò da sola in mezzo alla strada, ferma davanti al suo palazzo, con le sue valigie ai piedi. Prese l’ascensore e poco dopo arrivò di fronte alla porta. Infilò le chiavi nella toppa, poi aprì. Andrea arrivò in salotto a gran velocità e fece partire la musica dallo stereo lì vicino.
«Eccoti! Bentornata!»
Sofia guardò in giro. Alcune stelle filanti scendevano disordinate dal lampadario, dei fiori di campo erano sul tavolo al centro del salotto. Su un cartellone rosa Andrea aveva disegnato i pupazzi di Topolino e Minnie che si guardavano timidi e innamorati. Sopra un cuore con i loro nomi: “Andrea e Sofia”. Vide dei pasticcini sul tavolo e lì vicino una bottiglia di ottimo Bellavista Franciacorta.
Sofia guardò tutti quei preparativi, quel tentativo di essere carino, poi si avvicinò ad Andrea e lo baciò sulle labbra.
«Mi sei mancato.»
E poi, senza riuscire a evitarlo, cominciò a piangere.
«Perché piangi, amore? Non fare così.»
Sofia si inginocchiò e poggiò la testa sulle sue gambe.
Andrea le accarezzò i capelli, poi guardò le stelle filanti che scomposte penzolavano dal lampadario, i fiori di campo in un angolo, Topolino e Minnie con i loro no-mi dentro quel cuore. Sofia continuava a piangere. Era contento di averla sorpresa. L’emozione gioca sempre brutti scherzi, soprattutto a chi, come lei, era così sensibile. Allora sorrise e le fece un’altra carezza.
«Anche tu mi sei mancata.»
I giorni seguenti non furono facili.
«Ma ti sei abbronzata moltissimo! Ti sei divertita?
Com’era questo maestro tedesco? Bravo?»
Le risposte erano solo bugie ma non poteva tradirsi.
Sull’aereo di ritorno aveva trovato una rassegna stampa di tutti i suoi concerti. Li aveva letti velocemente e con facilità memorizzati. Era una serie di appunti su come potevano essere andati quei cinque giorni ad Abu Dhabi, cosa aveva mangiato, com’era stato il tempo e poi le particolarità dei mercati, la parola più usata dalle persone in quella lingua, ciao, buongiorno, buonanotte e gli alberghi più importanti, una mostra che poteva aver visto. Sofia non fece altro che ripetere tutto quello che aveva letto sul fascicolo.
Poi arrivò il momento più complicato.
«Ehi, hai mangiato mentre stavi fuori… Vieni qui…»
Sofia si avvicinò al letto.
«Mi piaci ancora di più così tonda.»
Lui le accarezzò piano le gambe, salì su lentamente.
Sofia chiuse gli occhi. Doveva essere naturale, credibile, desiderarlo. In qualche modo si lasciò andare ma fare l’amore fu la cosa più difficile. Non pensare a quei cinque giorni fu quasi impossibile. E per un attimo si sentì in colpa. Le sembrò di tradire Tancredi.
Piano piano le cose rientrarono.
Avevano spedito la domanda allo Shepherd Center di Atlanta prima della partenza.
Appena due settimane dal suo ritorno finalmente arrivo la risposta. Tutti i passaggi dovuti erano stati fatti, le procedure erano state rispettate, l’ospedale aveva risposto positivamente. Tra venti giorni ci sarebbe stata l’operazione.
Sofia tornò alla scuola di musica per ingannare il tempo. Chiese ad Olja di restituirle la lettera che non aveva spedito e poi le raccontò dei suoi concerti.
«Nell’ultimo bis ho fatto la Giga della Toccata in Mi Minore di Bach.»
«E?…»
Sofia le sorrise.
«Tutto bene.»
Olja l’abbracciò soddisfatta.
«Lo sapevo. Sei una pianista eccellente. Io non volevo che tu fossi la migliore, volevo che tu fossi unica.
E ci sono riuscita.» Si allontanò così lungo il corridoio.
Sofia la guardò scendere le scale un po’ traballante ma felice. Almeno su questo non aveva dovuto mentire.
In un attimo poi arrivò il giorno della partenza.
Tancredi era nel suo ufficio di New York. Sorseggiava un caffè guardando le foto nella cartellina. Erano state scattate sull’isola. Un centinaio. C’era Sofia mentre faceva il bagno, mentre si cambiava, mentre passeggiava al tramonto e anche il loro bacio. Il primo giorno un fotografo aveva immortalato i loro diversi momenti di nascosto, perfino con degli infrarossi. Quando erano in camera da letto invece era stato lui stesso ad attivare una telecamera. Spinse un telecomando e accese una grande tv al plasma, poi un lettore e fece partire il filmato.
Eccola. Non aveva nulla addosso. Era bellissima. Era eccitante. L’ascoltò sospirare. Gli mancava. Moltissimo.
Gli mancava perché non era sua? Gli mancava perché era lei. L’interfono lo avvisò di una visita. Spense tutto, poi chiuse la cartellina.
«Lo faccia entrare.»
Davide apri la porta. Era vistosamente arrabbiato.
Si fermò davanti al suo tavolo. Tancredi lo guardò sorpreso.
«Ciao, amico mio, che ci fai qui? Non sapevo fossi a New York.»
«Sono qui per te. Volevi un attico su Manhattan, lo sto cercando.»
«E come va la ricerca?»
«Male. Però ho trovato questa.»
Gli buttò una lettera sul tavolo. Tancredi la guardò incuriosito. Davide gliela indicò.
«Leggila.»
L’aprì.
La scrittura era di Sara. “Amore mio, non è possibile vivere così. Da quella notte in piscina ho capito che nulla potrà mai essere più come prima…”
Tancredi la lesse fino in fondo. Non faceva il suo no-me. Davide lo stava fissando.
«E Sara. Non riconosci la sua scrittura?»
«Sì. Mi sembra la sua.»
«Capisco di chi sta parlando anche se non fa il nome.
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