Dal grande oblò Sofia poteva guardare la città. Erano alti ormai, alcune piccole nuvole si coloravano di ro-sa, sembravano batuffoli di lana che le ali tagliavano a metà. Più lontano si vedeva il mare. Su tutto quel blu apparivano degli spruzzi bianchi improvvisi, dovevano essere le onde. Poi le si avvicinò lo steward.

«Vuole venire, signora? Il capitano vorrebbe che andasse da lui.»

Sofia guardò Tancredi come per chiedere permesso ma anche semplicemente: “Cosa faccio?”.

«Vai se ti va…» Tancredi rise. «Vuole solo te. Di me non ne può più.»

Così, scortata dallo steward, arrivò in cabina. Il comandante la salutò. «Prego, si accomodi.»

«Ma non è che tocco qualcosa e faccio un casino?»

Il comandante rise. «Almeno così movimenta un po’ í la serata…» Poi la tranquillizzò. «Non si preoccupi, non può accadere nulla.»


Sofia si sedette accanto a lui. Guardò avanti. Non c’era nulla se non l’orizzonte lontano e, quando entravano in una nuvola, tutto accadeva a una velocità incredibile. Non si faceva in tempo a vederla che era già passata. Oltre. Ecco cos’era volare. Essere oltre. Come se non ci fossero più distanze, in un attimo essere altrove e appartenere al mondo. Fu quella la strana sensazione che provò Sofia, seduta accanto al comandante.

«Grazie. E bellissimo.»

«Si figuri» fece lui. E lei continuò a guardare quell’infinito davanti ai suoi occhi, più sotto vedeva sfilare ma-re, città, boschi, strade, laghi, ancora boschi più scuri.

E piano piano divenne sera.

«Mi scusi, dovrei riprendere il mio posto» le disse il secondo sorridendo imbarazzato.

«Ma certo… Scusi lei.» Si alzò e uscì dalla cabina.

Gregorio Savini osservò la ragazza che tornava al suo posto mentre la porta alle sue spalle si richiudeva. Si sorrisero, lui continuò a sfogliare il giornale. Sofia si sedette. Quando la vide arrivare, Tancredi si alzò. «Allora come è stato? Paura?»

«Per niente. E incredibile. A un certo punto ha fatto una curva a destra, quindi andiamo di là…»

Indicò una direzione cercando, curiosa, di capire.

Tancredi annuì. «Sì…» Poi le spostò di poco il braccio.

«Ma un po’ più in là.»

«Ah.» Sofia fece finta di aver capito.

«Sai, è la prima volta che sono felice di aver perso una scommessa.»

Tancredi le sorrise. «E io è la prima volta che sono felice di andare a Verona.»


L’aereo atterrò poco dopo. All’uscita dell’aeroporto li attendeva un’auto identica a quella di Roma. Tancredi fece lo spiritoso, aprì il cassettino in legno, in mezzo ai due sedili.

«Allora, posso offrirti qualcosa? Una birra, un Bitter bianco o rosso, un po’ di vino, dello champagne…»

Sofia stette al gioco. «Mi sembra di averla già vissuta questa scena.» Appoggiò l’indice sulle labbra fingendo di fare la ragazzina. «O no?» Quel gesto eccitò moltissimo Tancredi. «Sembra di stare in quel film dove ogni giorno si ripeteva la stessa storia…»

«Ho capito quale dici, quello con Bill Murray, do-ve lui vive sempre la stessa giornata e quindi conquista qualsiasi donna perché ha imparato a conoscerne i gusti. La prima volta si può anche sbagliare, ma se alla fine uno sa tutto di quella persona è chiaro che gli riesce facile…»

«Già.»

«Però non ci sarebbe neanche divertimento, no?»

«Sì, credo di sì.»

Tancredi fece finta di niente. Poi ci ripensò. «Alcuni film fanno sembrare la vita molto più facile di quanto non sia. È per questo che poi si rimane delusi.»

«O forse si rimane delusi perché si è preteso troppo.»

Rimasero in silenzio per un po’. Poi Sofia si girò verso di lui. «Ma stasera però è bella come un film.»

«Sono felice che ti diverti. Ecco, siamo arrivati.»


La Bentley si fermò davanti al Due Torri Hotel Baglioni. Gregorio Savini scese e aprì lo sportello facendola scendere. Sofia fu colpita dalla bellezza di quell’albergo, in pieno centro di Verona. Poi si irrigidì. Che c’entrava la fermata in un albergo? A cosa serviva? Cercò di tranquillizzarsi. Forse faceva parte della sorpresa.

«È qui il segreto?»

Tancredi scosse la testa. «No, qui ci riposiamo un po’…»

«Ma io non sono stanca.»

«Facciamo due chiacchiere se vuoi, una doccia.»

«E qui che porti le tue donne?» gli chiese infastidita Sofia, ma l’arrivo in quell’istante del direttore salvò Tacredi.

«Dottor Ferri Mariani. Finalmente, mi fa piacere questa sua visita, sono felice di conoscerla.»

«Vedi, è la prima volta…» sussurrò Tancredi.

Il direttore chiamò dei facchini. «Avete delle valigie, qualcosa?»

«No, siamo di passaggio, ripartiamo quasi subito.»

Il direttore rimase sorpreso. «Quando l’altr’anno mi ha fatto quella telefonata per avere notizie su quest’albergo mi sono sentito molto lusingato, quando poi lo ha comprato mi sono sentito anche molto responsabile…

Vuole vedere l’albergo?»

«No, tornerò presto. Oggi siamo in vacanza.»

«Benissimo, come desidera lei, allora vi accompagno.»

Il direttore passò alla reception, poi presero l’ascensore.

«Ecco, di qua, signora. Questa è la sua suite…» Aprì una porta con la tesserina magnetica, e invitò Sofia a entrare.

«Prego… Questa è la camera da letto, se vuole riposare, questo il salotto, di qui c’è il bagno e questa è la finestra che dà sul terrazzo. Di qua si possono vedere i campi e le vigne del nostro buon Valpolicella, di là l’Arena dove…»

Si accorse dello sguardo di Tancredi e capì che stava dicendo troppo. «Be’, è famosa insomma. Per qualunque cosa ci chiami, saremo felici di esserle utili.»

Rimasta sola, Sofia si sedette sul letto, si lasciò andare all’indietro e cadde distesa con la faccia rivolta al soffitto. “Non ci posso credere. Questo albergo è bellissimo e lui l’ha comprato. Solo questa stanza è più grande di tutta casa mia.” Gironzolò un po’ per il salotto, c’era un televisore al plasma di almeno cinquanta pollici attaccato al muro come un quadro poi un lettore di ed Bang&Olufsen poggiato sul tavolo, con due grandi casse e una superficie piatta verticale per i cd, che si apriva semplicemente sfiorandola. Poi andò in bagno, era in marmo perfettamente lavorato, la doccia aveva un soffione quadrato enorme. Provò l’acqua, era regolabi-le con dei pulsanti. Poteva avere una specie di pioggia tropicale, oppure un getto più lento come l’acqua che scende dalle grondaie, oppure un getto unico, più forte, come una cascata.

Sentì suonare il telefono. Si poteva rispondere anche dal bagno.

«Sì?»

«Sei a letto? Dormi?»

“Ecco, lo sapevo” pensò Sofia. «No. E poi se dormivo come potevo rispondere?»

«Be’, magari ti avevo svegliato… Puoi uscire in terrazzo?»

«Certo.» Sofia riattaccò e si diresse verso la finestra.

Uscì fuori, confinava con l’altra camera, si guardò in giro.

Tancredi era in fondo alla balaustra, lei lo raggiunse.

«Guarda…» Le indicò le colline lontane e il sole ancora alto sui vigneti. «Quando il direttore mi ha parlato di questo, mi ha convinto. Non sembra una donna distesa nel verde, con i suoi seni, le gambe lunghe? E quei vigneti la stoffa del suo vestito e il sole lì in fondo un suo sorriso?»


Sofia socchiuse gli occhi. Quelle colline ricordavano proprio il corpo di una donna. «È vero.»

«A volte non sappiamo osservare quel che ci circonda. Abbiamo sempre troppa fretta…»

«Cosa intendi dire?»

Scosse la testa. «Vedi? Tu cerchi altro nelle mie parole, magari un’allusione, invece io volevo dire semplicemente quello che ho detto. La bellezza è intorno a noi.

A volte siamo ciechi.»

Sofia allora sorrise e finalmente si rilassò. Tancredi se ne accorse. «Ecco, ora mi sono spiegato bene, lo vedo.

È un peccato perdersi le cose belle di questa vita. Ci vediamo giù alle sei?» Guardò l’orologio. «Tra quaranta minuti, va bene?»

«Sì.» Sofia rientrò nella stanza, si levò le scarpe e si stese sul letto, incrociò la gambe e mise le mani sulla pancia, chiuse gli occhi e cominciò a pensare. E piano piano ripercorse tutto quello che era successo con Tancredi. Quell’incontro in chiesa, la chiacchierata sulle scale, poi quel nuovo incontro al bar e infine quella giornata, Lavinia, i biglietti per gli U, Ekaterina Zacharova, l’aereo e ora Verona. Non riusciva a crederci, era stata come travolta, strappata alle sue sicurezze. E lei si era lasciata andare. Dove sarebbe finita?

Scoppiò a ridere. Che esagerazione, dove poteva finire? Da nessuna parte. Avrebbe vissuto quella giornata e se la sarebbe ricordata. L’avrebbe raccontata a Lavinia dopo averla sgridata per bene. Conoscendosi prese il telefonino, impostò la sveglia per le. e lo spense. D’altronde era a lezione con i suoi ragazzi, no?

Non poteva mica tenerlo acceso e su questo pensiero si addormentò.

Un cielo rosato al tramonto, alcuni gabbiani che vo-lano bassi, sempre di più, sfiorano l’acqua. Uno di loro con il becco afferra qualcosa, per un attimo si vede in controluce, brilla nel blu del mare, poi riprende quota, sale su, più su e si perde tra le nuvole, con il suo pesce. Sofia è distesa sulla sabbia, poggiata sui gomiti, le gambe leggermente piegate. Non porta nulla, è nuda, è abbronzata. Tra le sue gambe quei riccioli chiari e nessun segno del costume. Si tocca il seno, si accarezza il capezzolo, si mette ancora un po’ di crema.

«Ehi, ma che combini da sola? Non mi aspetti?»

La sua voce. Calda, sensuale, maliziosa, con dentro una risata. Sofia guarda a destra, a sinistra, alle sue spalle. «Sono qui…» Allora finalmente lo vede. E in acqua, davanti a lei. Sofia chiude un po’ le gambe mentre lui esce dal mare. Sorride mentre cammina. Ha l’acqua fino al petto, poi scende, più giù, alla pancia, alla vita. Ma…