Erano passati appena tre mesi dall’incidente. Era rimasto in un letto, poi su una sedia a rotelle e aveva cominciato a girare per i corridoi fino a quando aveva incontrato il chirurgo che lo aveva operato.
“Buongiorno, professor Riccio!” Era allegro quella mattina Andrea. “Ma quando potrò alzarmi?”
Il professor Riccio lo aveva guardato con un sorriso.
Poi gli aveva fatto una carezza sulla testa come se fosse quel padre che ormai non aveva più da dieci anni.
“Ci vorrà tempo, Andrea. Ma ti trovo in forma…”
E se n’era andato così, di spalle, subito raggiunto da un giovane assistente che gli aveva sottoposto la cartella di un paziente. Aveva sfogliato quelle pagine ma era come se sentisse ancora lo sguardo di Andrea, quegli occhi insistenti, interrogativi. Allora il professore si girò e lo fissò. Fu un attimo, ma in quegli occhi Andrea vide la tristezza di quella bugia e allora capì. Non si sarebbe rialzato mai più da quella carrozzella.
«Sono ormai tre anni che faccio questo lavoro…» Andrea si accorse che quel ragazzo ai piedi del letto stava parlando da un po’. Non aveva seguito nulla di quello che aveva detto. In quel momento sarebbe voluto essere da un’altra parte, su un’isola, anzi in acqua, nel mare, aveva caldo. «E credo di aver capito che cosa mi ha spinto a fare questo mestiere.» Fece una pausa come se cercasse la sua attenzione, un po’ di curiosità, un accenno di risposta. Sapeva che non ne avrebbe avuta, così continuò: «Un film». Rimase in silenzio come se quella frase avesse potuto fare effetto. Andrea invece guardava verso la finestra. Stefano riprese il racconto. «È stato un film a farmi decidere per questa vita. Magari se quella sera non fossi rimasto a casa e non avessi acceso la tv oggi non sarei qui. Ecco…» Rise. «È stata colpa di quel film.» Cercava di essere spiritoso. Ma Andrea non gli prestava attenzione. “E io?! Che film ho visto io, cosa ho fatto, che possibilità di scelta ho avuto? Nessuno mi ha chiesto: vuoi forse vivere così? Non potevo essere dimenticato sul bordo di quella strada? Non potevano farmi sbattere contro quella macchina e basta? Oppure rendermi completamente incapace di intendere e di \
volere, così che oggi io non sentissi, non sapessi, non potessi nemmeno capire queste parole così sciocche? “
Una lacrima scese dai suoi occhi. Ma Andrea pensò che si sarebbe confusa facilmente con il suo sudore e, se anche fosse stata scoperta, non gliene sarebbe importato nulla. Non gli interessava più niente di niente.
Quel ragazzo continuò a parlare. Andrea non lo ascoltava più, aveva chiuso gli occhi, inondati dalle lacrime, ed era da un’altra parte. Era fuori, al sole, aveva una maglietta e un paio di pantaloncini, era accaldato e correva, sì, correva in mezzo a quei ragazzi con la palla incollata al piede e ne dribblava uno e poi un altro e lan-ciava la palla avanti e correva sulla fascia senza fermarsi, veloce, più veloce di ognuno di loro, sulle sue gambe, sulle sue belle gambe.
Quando si svegliò in camera non c’era più nessuno.
La sedia era stata messa a posto, la luce che entrava dalla finestra era più bassa. Dal campo di calcio non arrivava più nessun rumore, la partita era finita. La porta si aprì piano piano e, come se avesse sentito che si era appena svegliato, Sofia entrò nella stanza con un vassoio. Sopra c’era una teiera piena di tè caldo e un succo di pomodoro condito, alcuni biscotti dolci, delle patatine e delle olive. Andrea fece leva sulle braccia, sollevò il bacino tirandolo a sé. Sofia gli sistemò meglio il cuscino dietro la schiena, poi la buttò lì come se fosse una chiacchierata di tutti i giorni.
«Stefano è andato via. Che te ne sembra?»
Andrea la guardò con un sorriso sarcastico. «È l’ultima persona al mondo che avrei voluto conoscere. Di-sprezzo il suo pietismo e la sua presunzione di intelligen-za, mi ha trattato come se avessi sbattuto la testa e non la spina dorsale, come se fossi un coglione di sei anni, che ha paura di quello che lo circonda… Se avessi ancora le gambe lo prenderei a calci in culo fino all’ospedale.»
Poi la guardò a lungo. Lo aveva detto apposta, cercava la lite, era pieno di rabbia e reagiva così perché voleva allontanarla.
Sofia lo aveva capito e si sorprese nel vedere come fosse quasi un’altra a rispondere al posto suo.
«Tu hai ancora le gambe e loro non hanno perso le speranze, dicono che un giorno potrai muoverti.
L’ospedale non è poi così lontano. Magari potrai pren-derlo sul serio a calci fino a lì.» Anche lei aveva cercato di essere spiritosa. In realtà non sapeva più che fare.
«Ma loro chi? Chi non ha perso le speranze? I medici? Quelli non possono che vivere di speranze, non hanno altro da dare ai loro pazienti, oltre ad analge-sici, farmaci antipanico, antistress, antidepressivi. Ad-dormentano il mondo per chiavarsi senza essere visti le infermiere, le loro o quelle degli altri… Io odio i medici.
Figuriamoci uno psicoterapeuta del cazzo.»
E prese il succo di pomodoro con tale violenza che urtò la teiera e il tè caldo gli si rovesciò tutto sul lenzuo-lo e in parte sulle gambe.
«Ma che fai?»
«Che faccio? Che cazzo di domande! Mi rovescio il tè addosso… Tanto non sento nulla! Mi sono bruciato?
Non sai quanto mi dispiace ma non sento niente!»
E su quelle parole prese la tazza e la lanciò con forza contro la finestra, poi anche il bicchiere e lo lanciò contro il muro, poi le patatine e la vaschetta piena di olive.
E alla fine scaraventò lo stesso vassoio contro la lampada sul tavolo. Cominciò a tirare ogni cosa che trovava a portata di mano, il libro sul comodino, il cassetto. Poi si allungò sul letto, si aggrappò alle tende con tutte e due le mani, i ganci al muro ressero il suo peso per un attimo, poi si staccarono con tutto il binario, Andrea si sbilanciò e cadde giù dal letto. Scivolò per terra, nel tè versato, nel pomodoro tra le olive, le patatine, i pezzi di vetro. Si portò dietro il peso morto delle sue gambe, intrappolate nelle lenzuola.
Sofia, che era rimasta impietrita, gli fu subito accanto. «Amore, non fare così, ti prego, amore, ti prego…»
«Maledetta vita, maledetta.» E cominciò a dare pugni per terra, poi cercò di alzarsi con le mani aperte ferendosi i palmi, tagliandosi. Il sangue si mischiava al pomodoro, al tè, a quei biscotti sbriciolati in un impia-stro dolciastro.
«Perché… Perché…» Andrea cominciò a piangere.
Sofia lo abbracciò, lo strinse forte e cominciò a piangere anche lei.
«Perché non mi hanno lasciato morire? Perché mi hanno punito in questo modo? Dovevo morire, dovevo morire, non dovevo essere qui. Guardami…»
Sofia si staccò da lui. Lo teneva tra le braccia. «Ti guardo e sei bello come sempre…»
«Non è vero, faccio schifo.»
«Amore, ti prego non dire così. E della mia vita? Cosa sarebbe stato della mia vita, non ci pensi?»
Andrea rimase in silenzio. «Era meglio anche per te se non ci fossi più stato.»
Sofia lo abbracciò di nuovo e lo strinse ancora più forte. «Ma non è vero, perché dici così?» Aveva il vi-so nascosto tra i suoi capelli. Respirava il suo profumo piangendo.
«Perché è così.»
Sofia gli accarezzò i capelli. «Ti amo, è l’unica cosa che conta.»
«Allora giurami una cosa.»
Sofia si staccò. «Te lo giuro, amore.»
Andrea finalmente sorrise. «Ma ancora non sai cos’è…»
Anche Sofia gli sorrise. «Qualunque cosa… Dobbiamo stare meglio, comunque. Così non è possibile continuare.»
Andrea fece un lungo sospiro. «Il giorno che non sarai più innamorata, il giorno che ti dovesse piacere qualcun altro…» Sofia provò a parlare. Ma lui le mise subito una mano sulla bocca. «Fammi finire…»
Sofia chiuse gli occhi per un attimo poi lì aprì e annuì.
Andrea continuò. «Anche se non ci fosse nessuno e ti fossi solo stancata di me… Tu mi dovrai lasciare senza farti problemi.»
«Ma…»
«No, ci lasceremo come qualsiasi coppia. Giuramelo.»
«Te lo giuro.»
«Qualunque cosa accada. Se tu non avrai più voglia di stare con me ci lasceremo e basta. Va bene?»
«Te l’ho giurato.»
Andrea la guardò negli occhi. Sofia incontrò il suo sguardo. E vide un uomo diverso da quello che aveva sempre conosciuto. Lo vide fragile, insicuro, bisognoso d’affetto, di ricostruire tutte quelle che erano state le sue certezze.
«Fammi sentire un uomo come tutti.»
Allora a Sofia si riempirono gli occhi di lacrime e scappò via dalla stanza. Poco dopo tornò. Si era lavata il viso, si era pulita dal mascara che aveva iniziato a co-larle dagli occhi. «Scusami.»
«Figurati, anch’io ho pianto.»
Si misero a ridere. Sofia tirò un po’ su con il naso.
Andrea era riuscito a rialzarsi da terra e a mettersi sul letto. «Non ho potuto pulire per terra…»
Sofia gli sorrise. «Quello non lo facevi neanche prima…» E se ne andò di là.
«Non è vero…» le urlò Andrea dalla camera. «Qualche volta ho rifatto il letto.»
«Una volta, per sbaglio. O chissà cos’altro avevi combinato tra quelle lenzuola.»
«Come sei perfida.»
Sofia lo guardò alzando il sopracciglio. «Di più.» Cominciò a spazzare per terra, raccolse i vetri, le olive e le patatine. Poi Andrea la prese per il vestito e la tirò a sé.
«Scusami.»
«L’ho già fatto.» L’abbracciò forte.
«Scusami di più.»
«Fatto anche quello.»
«Scusami con amore.»
Sofia lo guardò, sorrise e gli diede un bacio. «Ecco fatto.»
«Ora sono felice.»
Solo allora Sofia si accorse che la sua gonna era tutta sporca di sangue. «Ma amore, guarda le tue mani! Sono piene di pezzi di vetro.»
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