I genitori l’avevano presa in parola, così quando Giovanni aveva bussato a casa, avevano fatto finta di essere preoccupati anche loro, gli dissero che ogni tanto Sofia li chiamava per tranquillizzarli ma non sapevano assolutamente dov’era né lei voleva dirglielo. Giovanni sembrava fuori di sé. I genitori di Sofia si erano perfino preoccupati, avevano visto questo ragazzo molto ner-voso, troppo. Pensarono il peggio, una di quelle tante storie d’amore folle che finiscono con un gesto violento.
«Ce ne sono tante oggi! O Santa Maria… Proprio nostra figlia finirà così…»
E invece quando Sofia tornò in paese tutto andò nel migliore dei modi. Giovanni lasciò la sua ragazza, si mi-se con Sofia e iniziò una storia bellissima e passionale.
Quell’estate lei la passò con lui esattamente come aveva deciso. Fu un’estate fatta di libertà, di baci e scoperte, di giri sul motore e notti su tutte le spiagge intorno a Modica. Fu l’estate della sua prima volta. Poi tornò a Roma a studiare al conservatorio. Naturalmente per Giovanni perse qualsiasi interesse. Il suo era stato un semplice capriccio, voleva quella cosa solo perché non la poteva avere e, una volta che l’aveva ottenuta, se ne stancò facilmente.
Tancredi osservò le foto di quel periodo. Il viso di Sofia, il suo sguardo. Qualcosa aveva capito di quella ragazza: era un’ambiziosa, una volitiva, una donna capace, decisa e determinata. Bella e consapevole di esserlo.
In un’altra foto aveva un vestito di cotone leggero, una spallina caduta giù, il seno prosperoso e libero, senza reggiseno. Il vento le scompigliava i capelli, lei si stava passando una mano sulla fronte per cercare di fermarli, e aveva un’espressione come scocciata. Doveva aver capito che la stavano fotografando e in quel momento non avrebbe voluto. Non si sentiva perfetta. Tancredi avvicinò la fotografia per guardarla meglio. Invece lo era.
Anche di più. Bellissima, semplice, provocante. Quel vestito battuto dal vento le si stampava quasi addosso. Sotto la sua pancia piatta faceva qualche piega, poi diventava più aderente, sui fianchi le ricalcava le mutandine mettendone in risalto i piccoli bordi. Tancredi socchiuse gli occhi, si poteva vedere quel piccolissimo nastro di pizzo. Dovevano essere sexy. Poco più sotto il vestito, leggermente increspato, scendeva morbido sul suo sesso. Avvertì il sapore selvaggio di quella foto che non riusciva a nascondere nulla e si eccitò a quel pensiero. Era seduta su un motorino. Le fissò le gambe lunghe e abbronzate, in parte scoperte, e appena socchiuse.
Tancredi si sentì improvvisamente travolgere da un’ondata di passione, sentiva un calore crescere dentro. Voleva quella donna, ora, subito, averla come l’aveva avuta quel ragazzo a vent’anni, possederla su quel motorino, su quella spiaggia, sul tavolo del suo ufficio.
Ma da dove nasceva quell’improvvisa, assurda passione per una donna che aveva visto solo due volte? Avrebbe voluto capire quale ricordo, quale sconsiderata somi-glianza, con chi, quando, come, gli stava provocando tutto questo. Un uragano.
“La voglio. La devo avere.” Ed era quasi rabbia, una fame sessuale. Gli sembrava di impazzire. La sua vita, abituata al comando, improvvisamente disarcionata, cadeva a terra e lo guardava ammutolita. “Com’è possibile?” continuava a gridare dentro di sé. “Com’è possibile? Cosa ti succede, Tancredi?” ripeteva ora più piano, sapendo già di non poter trovare nessuna risposta.
Era come circondato. Il suo ufficio, quel tavolo, quei fogli, quelle foto, tutto ciò che gli stava intorno sapeva di lei. Bevve del rum con ghiaccio e limone, se lo servì da solo, non voleva sentire né vedere nessuno. Poi riprese a leggere, a sfogliare, a guardare altre foto. E
in un attimo era di nuovo nella vita di quella ragazza.
Il conservatorio, la sua vita a Firenze, un esame dopo l’altro e poi di nuovo a Roma. Sofia aveva cominciato a suonare nelle più grandi orchestre europee. All’età di diciannove anni aveva debuttato a Vienna e non si era fermata più. Parigi, Londra, Bruxelles, Zurigo, in giro per il mondo, concerti con i più grandi direttori d’orchestra. Non erano più diari o foto a parlare di lei ma filmati. Uno dopo l’altro Tancredi poté vedere dei concerti meravigliosi. Per la prima volta, da quando era nato, ascoltava con un’emozione diversa Chopin, Schubert, Mozart. Dalla sua cabina, uno dopo l’altro si levarono pezzi classici tutti perfettamente eseguiti da una grande pianista: Sofia Valentini. Non staccava gli occhi da lei, come rapito la seguiva piegata sui tasti di quel pianoforte. Una televisione austriaca, una polacca, una francese, una tedesca e infine una scozzese, tutte ne avevano messo in risalto la bravura, la perfezione, la freddezza, la precisione dell’esecuzione. Tancredi aveva osservato per ore le sue mani, aveva infilato uno dopo l’altro quei dvd, aveva vissuto i suoi successi in giro per il mondo e l’aveva trovata sempre più bella, in Argentina come in Brasile, in Canada come in Giappone. Era stupito dalla bravura di quella donna, ma soprattutto sorpreso da quello che provava per lei. Prima l’aveva desiderata tantissimo fisicamente. Ora quasi se ne vergognava. Era come se aver desiderato solo il suo corpo fosse peccato. Sì, peccato. Si ritrovò ad ascoltare quella parola come un’eco lontana, che echeggiava nel suo cervello, lo teneva sveglio e lucido in quella notte fonda, su quel panfilo, in mezzo al mare, al largo del Messico.
Si appoggiò allo schienale della poltrona, prese il telecomando e fermò il filmato. Dov’era ora Sofia? Cosa stava facendo? Che ora era a Roma? Era notte? Stava dormendo? Guardò quell’ultimo fascicolo rimasto. Gli mancavano gli ultimi otto anni. Eppure era più piccolo degli altri. Bevve l’ultimo sorso del suo rum. Cos’era successo in quel periodo? Come mai c’erano così poche pagine? Chi aveva conosciuto? Con chi viveva? Aveva dei figli? Perché aveva smesso di suonare? Era sposata? E soprattutto, era felice? E per un attimo Tancredi si sorprese. Avrebbe voluto bruciare tutto, non sape-I
re più niente di quella donna, dimenticarla, non averla mai incontrata. Ma sapeva che essere entrato in quella chiesa era stato solo l’inizio. Ormai non poteva più tirarsi indietro. Era troppo tardi. Allora si versò dell’altro rum, diede un lungo sorso e aprì l’ultimo incartamento.
Cominciò a leggere. Vide altre foto, altri filmati e alla fine capì.
Era l’alba. I gabbiani volavano bassi sull’acqua. I loro versi echeggiavano lontani su quel mare piatto. Le prime luci del sole che stava sorgendo illuminarono il panfilo. Dalla cabina di prua venivano le note di Schubert, il suo ultimo concerto. Tancredi era lì che la guardava, bella e irruente su quel pianoforte. Ora aveva capito perché un talento di quella portata aveva rinunciato alla musica. E sapeva anche perché l’aveva incontrata. Era come lui. Un’anima alla deriva.
«Allora, come ci sentiamo oggi?»
«Meglio di ieri e peggio di domani.»
Andrea sorrise a Stefano. Era diventato ormai il lo-ro buongiorno. Si vedevano tre volte a settimana. Da quando si erano conosciuti il loro rapporto era molto cambiato.
Subito dopo l’incidente le cose non erano certo state così facili.
«Amore… c’è lo psicoterapeuta.» Sofia rimase sulla porta lasciandolo entrare. Andrea girò lentamente la testa. Nella penombra vide un ragazzo della sua età, forse di poco più grande. Era alto, magro, con i capelli corti, sorrideva e soprattutto era in piedi sulle sue gambe. Andrea lo guardò per un attimo, poi voltò di nuovo la testa verso la finestra. La tapparella era abbassata. La luce filtrava appena. Ci doveva essere il sole fuori. Si sentiva la voce di ragazzi, era come un’eco lontana.
«Dai passa, lancia lungo…»
Si sentiva la loro fatica, la loro corsa, il rumore di quei passi sul campo assolato. Se lo immaginò asciutto, bianco, impolverato. Giocavano a pallone. Vide le gambe dei ragazzi, alcuni con i calzettoni tirati giù, pieni di peli, qualcun altro glabro, qualcuno abbronzato, qualcuno più grande, ma tutti avevano una cosa in comune: correvano. Con destrezza o con impaccio, con una grande visione di gioco o senza una particolare prestanza fisica, ma tutti correvano dietro quella palla.
Quello che lui non avrebbe più potuto fare. Rimase in silenzio a guardare la finestra. Si sentiva morire dentro, gli mancava il respiro. Provò a muovere le gambe. Te-stardo, come se fosse semplicemente un incubo, come se tutto quello che era accaduto se lo fosse solo immaginato. “Dai” pensò, “dai che ce la faccio, è solo un brut-to sogno. E solo questione di volontà. Spingi, spingi, come quando giocavi a rugby all’Acqua Cetosa, quando arrivava la palla e finalmente la stringevi tra le braccia ed era tua. E allora correvi, abbassavi la testa e le tue gambe volavano sul quel prato verde e nessuno riusciva a starti dietro, nessuno riusciva a placcarti. Volavano quelle gambe, altro che se volavano…”
Andrea ci provò di nuovo. Spingeva, stringeva i denti, ormai sudava, impegnato come un pazzo in quello sforzo. Piccole gocce di sudore gli scendevano lungo la fronte, sulle guance, sotto il collo. Sembrava pianges-se. Ma non era così. Con la coda dell’occhio guardava il fondo del letto. Sperava di vedere un minimo movimento, un accenno, una piccola piega improvvisa delle lenzuola, un segno di vita delle sue gambe. Nulla.
Una mano si poggiò proprio lì dove stava guardando.
Era quel ragazzo.
«Posso sedermi? Mi chiamo Stefano.» Non aspettò risposta. Prese una sedia e l’avvicinò al letto. Andrea era sempre lì con il viso rivolto verso la finestra. Aveva sentito chiudere la porta. Sapeva di essere rimasto so-lo con lui in quella camera. Sofia lo aveva preparato a quella visita. «L’ospedale ci manda una persona. Vorrei che tu provassi a parlare con lui. Può darti una mano.»
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