Salì sul ponte e chiese un caffè. Rimase a sorseggiarlo scrutando il cielo verso la costa. Guardò l’orologio. Le.. Niente, ancora niente. Che strano, era in ritardo.

Poggiò la tazzina su un tavolino e trascorse i successivi minuti seduto su una grande poltrona bianca di pelle.

Sfogliò alcuni quotidiani, erano di quel giorno ma non c’era niente che lui non sapesse già o che lo potesse sorprendere. Guardò di nuovo l’orologio. Le.. Il tempo sembrava non passare mai.

Decise di tenersi impegnato. Scese al ponte inferiore e cercò l’attrezzatura. C’era un po’ di vento e sembrava che stesse aumentando. Tancredi sorrise. “Be’, vorrà dire che dopo dovrò fare un altro massaggio. Magari questa volta non mi addormenterò…” Un attimo do-po era in mare. Tirò a sé le manopole, il kite si gonfiò subito, i cavi si tesero e in pochi secondi l’aquilone salì verso il cielo e lo strappò quasi dall’acqua. Tancredi vo-lò via, tenendo ben saldi i piedi dentro le staffe. Atterrò qualche metro più in là e subito, come toccò l’acqua, la tavola che teneva ben ferma sotto di lui cominciò a planare e in pochi secondi era già lontano dal panfilo.


Continuò a navigare in mare aperto. Il panfilo diventava sempre più piccolo, l’acqua più scura e profonda.

Pensò al Marlin che aveva preso, a tutti i pesci che nuotavano sotto di lui, a qualche possibile vendetta. Ma fu solo un attimo. Quella tavoletta volava che era una meraviglia. Forse sarebbe riuscita a seminare perfino uno squalo… Ma era meglio non dover tentare l’impre-sa. Eppure non aveva paura. Aveva sempre preso la vita come una continua sfida. Solo così in qualche modo aveva potuto affrontare e superare la storia di Claudine.

Ma l’aveva veramente superata? Tancredi continuò a correre su quelle onde, portato dal vento, perdendosi tra impossibili domande. Poi cambiò rotta, andò verso ovest e, quando ormai il sole stava per tramontare, prese la via del ritorno.

Il panfilo si avvicinava sempre di più. Mentre stava arrivando spedito con il kitesurf, da dietro la nave comparve l’elicottero. Finalmente. Guardò l’orologio.

Le.. Tancredi lasciò che il kite piano piano per-desse vento, si afflosciò cadendo in acqua poco più in là, mentre lui con la tavola arrivava sotto la scaletta. Diede tutto l’equipaggiamento a un marinaio che gli era venuto incontro, fece al volo una doccia calda esterna, si asciugò, si mise una felpa e corse sul ponte superiore dove l’elicottero stava atterrando. Le pale rallentarono, la porta della cabina si aprì e Gregorio Savini saltò giù. Tenne bassa la testa e stretto al corpo tutto quello che sarebbe potuto volare via. Poi corse verso Tancredi che lo aspettava a qualche metro di distanza.

«Ma cosa è successo? Come mai tutto questo ritardo?»

Savini si scusò. «Non è stato facile.»

Tancredi guardò l’incartamento che Gregorio Savini teneva sotto il braccio.

«È lì?»


«E anche qui» disse lui alzando una valigetta che aveva nell’altra mano.

«Questa ragazza ha avuto una vita particolare.»

«Sì» disse Tancredi. «Immagino di sì.»

Finalmente avrebbe potuto conoscere la vera storia di Sofia.


Tancredi andò nella sua cabina. Era stata ricavata interamente nella prua: un grande salotto, uno studio, un bagno e una camera da letto con due grandi finestre laterali. Erano di plexiglass, spesse oltre quarantacin-que centimetri, pescavano per circa quattro metri sotto la superficie dell’acqua. Avevano un sistema oscurante ma si potevano anche lasciare a vista, così da vedere il mare scorrere sotto la camera da letto. A volte, quando l’acqua era particolarmente trasparente, si riuscivano perfino a vedere i fondali.

Tancredi entrò nello studio. La luce del tramonto illuminava tutta la stanza rendendo quell’ambiente particolarmente caldo. Si sedette al tavolo, prese il fascicolo e lo aprì, poi tirò fuori dalla valigetta tutto il materiale, foto, fogli, e altri documenti. Questa volta Gregorio Savini aveva fatto un lavoro impeccabile, era andato indietro nel tempo, dai primi anni della vita di Sofia fino agli ultimi giorni, quando Tancredi l’aveva vista per la prima volta. Non aveva mai ricevuto una documentazione così dettagliata, neanche quando si era trattato di affrontare grandi affari dove erano in gioco cifre astronomiche. Tancredi non credeva ai suoi occhi.

Non era stato tralasciato niente, ventinove anni di vita passati al setaccio, un fascicolo di oltre cento pagine pieno di appunti.

Gregorio Savini aveva capito che questa volta la posta era diversa. Non sarebbe stata la solita partita e \

soprattutto l’esito non era per niente sicuro. Tancredi decise di non pensarci. Affondò con tutte le mani dentro la vita di quella donna. Sfogliò una dopo l’altra una serie di cartelle. Era emozionato, curioso, preoccupato.

Trovò subito l’atto di nascita, luglio. Sorrise pensando che mancava almeno un mese per poter decidere il regalo. Poi rimase senza parole. Vide le sue prime foto, ancora prima che nascesse, l’ecografia di un essere appena accennato, qualche tratto del viso, il nasino, una mano. Quella era la prima immagine di Sofia. Poi la vide in fasce, in una culla, in una carrozzina, che si teneva aggrappata all’inferriata di un terrazzo. Dietro si vedeva il mare. Chissà dov’erano? Controllò il numero della foto: nove. Cercò sugli appunti il riferimento.

Nove: Mondello, prima vacanza a Palermo. Continuò a sfogliare quelle pagine, si accorse che i genitori erano siciliani, di Ispica, un paese vicino a Modica per l’esattezza. Da giovanissimi si erano trasferiti a Roma e poi erano tornati a vivere in Sicilia. Erano ancora vivi e non si erano separati. Continuò a sfogliare. Quella ragazzina cresceva pagina dopo pagina, i primi dentini, le prime feste, i primi passi, la prima bicicletta, il primo motorino. E le scuole. C’erano perfino i temi.

Gregorio Savini aveva fatto un ottimo lavoro. Tancredi iniziò a leggerli. Si accorse di come uno dopo l’altro la sua scrittura cambiasse, da tonda e infantile diventava piano piano più lineare e precisa, come le sue frasi, i suoi pensieri. Poi gli esami, la maturità e quella ragazzina che diventava improvvisamente donna. Ed ecco il suo primo amore importante e il primo bacio.

Poi passò in rassegna tutte le pagine fotocopiate di un vecchio diario, i suoi disegni, le sue foto, cuori disegnati, scritte con il pennarello, nomi di amiche, altri nuovi possibili amori e frasi rubate a qualche famoso autore e fatte sue.

Tancredi respirava la vita di quella donna, ne sentiva i profumi, studiava i cambiamenti, immaginava i suoi passi, la sua voce, si nutriva di tutti quei mille piccoli dettagli. Tra i vari fogli vide una busta. L’aprì, all’interno trovò una minicassetta. Si alzò e la inserì nel registra-tore. Era la sua segreteria telefonica, ascoltò la sua voce, le sue risposte, le amiche, gli inviti alle feste. Lesse alcuni sms. Rimase sorpreso da come quella ragazza fosse cambiata in quegli anni. Da Ispica era andata a Roma, aveva studiato lì per un breve periodo, poi a Firenze dove aveva vissuto da una zia, ma in tutto quel tempo aveva sempre seguito la passione di una nonna siciliana, il pianoforte.

Un’altra cassetta. Tancredi sentì la prima esibizione. Schubert. Sofia aveva appena sei anni eppure gli sembrava già una pianista eccellente, per quello naturalmente che lui conosceva della musica. Continuò ad ascoltarla suonare, mise una cassetta dopo l’altra e intanto leggeva i temi del liceo, pieni delle sue idee, dei suoi pensieri a volte contorti e complessi, a volte più semplici e ingenui. Sfogliò le foto, anno dopo anno, e quella ragazza sembrava sbocciare sotto i suoi occhi, capelli scuri, poi più chiari, poi più corti, vestiti da bambina, poi da ragazzina, da ragazza, infine da donna. Le feste di Natale, di Pasqua, al mare, a capodanno in montagna e intanto riprendeva i suoi diari, la prima fuga, il primo viaggio all’estero. Provava quasi fastidio nel vedere tutti quegli anni trascorsi in giro per l’Italia, per il mondo, le sue feste, i suoi giorni a scuola, i suoi pomeriggi divertenti o noiosi, di sorrisi o di pianto, ma tutti senza di lui. E improvvisamente si sentì geloso di quel tempo ormai sfuggito, che non sarebbe mai più potuto essere suo.

Poi la sua prima volta. Cercò di carpire da quelle frasi sul quel diario, da quelle lettere, da quelle foto scattate poco prima e subito dopo, come doveva essere stata. Il sesso le era piaciuto? Aveva avuto paura? Aveva provato dolore? Aveva riso, pianto, goduto? Come aveva fatto l’amore con lei quel ragazzo? Con dolcezza, con passione, o in maniera distratta, frettolosa, sbrigativa?

Lesse più volte quel passaggio e immaginò quella storia. Lui, Giovanni, il suo primo ragazzo del suo stesso paese, di Ispica. Sofia lo aveva guardato ogni estate su quella spiaggia, lo aveva visto crescere sotto i suoi occhi, i primi peli, la sua voce che cambiava, la barba.

Continuò a leggere il fascicolo di quel periodo. L’aveva conosciuto in un bar. Aveva più anni di lei, ma Sofia non si faceva problemi. Gli aveva fatto capire che le piaceva ma lui la considerava semplicemente una ragazzina, simpatica, divertente, anche carina, ma non certo una donna. Allora lei aveva deciso di aspettare. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, non aveva fretta. L’aveva preparato ogni estate, era tutto documen-tato in quei diari. Le sue mosse, i suoi passaggi, le sue battute, le telefonate, piano piano era diventata la sua amica del cuore e aveva cominciato a giocare con lui.

Gli faceva regali, sorprese, passava da lui con qualcosa da mangiare, gli lasciava sempre un bigliettino sul suo “motore”, come chiamavano i motorini in quel paese.

Anno dopo anno, Sofia si era spinta sempre più in là, una battuta maliziosa, un’allusione, l’odore del possibile sesso. E così diventò desiderabile per lui e infine una vera e propria ossessione. Poi il cambiamento. Da che scherzava e sembrava non dargli tregua, improvvisamente sparì. Dopo qualche giorno Giovanni era co-me impazzito, allora andò a cercarla a casa e chiese ai genitori, ma Sofia li aveva preparati. «Vado da Lucia a studiare perché c’è uno che non mi dà pace. Anche se insiste non ditegli dove sto!»