Rinuncerò a quello che mi chiederai se lo farai vivere.”

E improvvisamente partì una musica lenta, alcune no-te di uri Ave Maria. E quella musica continuò, era bassa, appena percettibile, eppure le sembrò un segno preciso.

Allora chiuse gli occhi e le venne da piangere ma capì che non poteva essere che quella la sua offerta. “Sì. Rinuncerò a suonare se lui vivrà.” Non seppe aggiungere altro. Le sembrava la rinuncia più grande. Improvvisamente calma, si alzò dall’inginocchiatoio. Anche la suora anziana ora non c’era più e la musica era finita.

Ripercorse tutti i corridoi, fino a tornare davanti alla sala operatoria. Si sedette su quella sedia e aspettò. Alle sei e venticinque il chirurgo che aveva operato Andrea uscì dalla sala, si abbassò la mascherina e andò verso di lei. Dovevano averlo avvisato che c’era una ragazza ad aspettarlo. Camminava lentamente, era stanco, provato e il suo sguardo non prometteva niente di buono. Sofia lo vide, guardò il suo viso e si sentì morire. Solo quando le fu vicino il chirurgo sorrise.

«Ce la farà. Ci vorrà tempo ma ce la farà.»

Allora Sofia si piegò su se stessa e cominciò a piangere. Grandi lacrime le scendevano sul viso, sfinito dalla fatica, dalla tensione, dal senso di colpa. In un attimo aveva visto la sua vita finire insieme a quella di Andrea. Il chirurgo l’abbracciò. Poi lei uscì dall’ospedale, si incamminò nell’alba senza dubitare neanche per un attimo che il suo voto potesse non essere valido. Non avrebbe suonato mai più.

Solo nei giorni seguenti capì quanto sarebbe stato lungo e difficile quel percorso. Andrea era diventato paraple-gico. Non avrebbe potuto più camminare. Aveva avuto una frattura delle vertebre inferiori che avevano coinvolto il midollo osseo, rendendo le sue gambe paralizzate. Si ricordò lo sguardo del Cristo dipinto nella piccola cappella dell’ospedale. Si domandò se la sua rinuncia al pianoforte fosse stata abbastanza, se l’avesse sul serio mai sentita suonare, se sapesse a quale passione, a quale incredibile amore aveva rinunciato per salvare Andrea.

«Ehi, avevo detto appena scottato! C’è un sacco di fumo che viene dalla cucina!»

La voce di Andrea la riportò al presente. Otto anni dopo quella sera. Poche cose erano cambiate. «Hai ragione, amore! Scusa! Stavo pulendo l’insalata e non me ne sono accorta, lo levo subito.»

Più tardi si sedette davanti al letto, preparò il poggia vivande e mise un disco adatto a quella serata, un pezzo tranquillo di Diana Krall. Sofia amava quella musica, era una delle sue autrici preferite. Iniziarono a mangiare uno di fronte all’altra. Andrea era di buon umore, si mise a scherzare sul tonno.

«Più cotto di così non si poteva fare…»

«Hai ragione, scusami. Te l’ho detto, mi sono distratta.»

«Ha riecheggiato forse nella tua mente…» Andrea alzò allusivo tutte e due le sopracciglia, «la parola inebriante}»

Sofia scoppiò a ridere. «No… Scemo.»

Andrea si pulì la bocca, poggiò il tovagliolo sul letto accanto a sé e la fissò negli occhi.

«Tu comunque mi sa che non me la racconti giusta.»

«Perché?» Anche Sofia si pulì la bocca con il tovagliolo ma in realtà lo usò per nascondersi. Era arrossita.

Sapeva già dove Andrea sarebbe andato a parare.

Ora era serio. «Neanche prima dell’incidente sei stata così passionale.»

«Sei ingiusto.»

«Sono realista.» Andrea si lasciò andare nel cuscino alle sue spalle. «Oggi tu hai incontrato qualcuno.»

Lei si mise a ridere. Tentò in tutti i modi di convin-cerlo. «Ma ti assicuro di no. Ho incontrato una decina di bambini e Olja. Se credi che siano stati loro la mia ragione come dici tu… inebriante, vuol dire che sono perversa.»

Sofia pensò che quella forse se la poteva risparmiare.

Sarebbe bastato dire di no e basta. Lo guardò di nuovo negli occhi e questa volta fu seria anche lei. «Andrea, ti assicuro, no, non ho incontrato nessuno.»

E alla fine questo suo atteggiamento fu più convincente. Andrea fece un lungo respiro, si rimise il tovagliolo e riprese a mangiare l’insalata.

«Mi è sembrato così strano. Era come se tu fossi un’altra donna.»

Ora Sofia era più tranquilla e si permise di scherzare.

«Ora sono io gelosa. La preferivi?»

«No.» Andrea la guardò in silenzio. «Mi ha fatto paura. Era come se rincorresse la vita, come se volesse essere lontano da qui.»

Sofia poggiò le posate. «Andrea… Avevo semplicemente voglia di fare l’amore con te.» Fece un sospiro.

«Per un attimo non ho pensato ad altro. È una colpa?»

«Scusami. È che sono legato a questo letto, non so cosa c’è oltre quella porta, non so dove vai, chi vedi.»

«Hai le stesse preoccupazioni di mille altri uomini che, pur non avendo avuto un incidente, hanno vicino a loro una donna più o meno bella e desiderabile…»

Sofia si alzò e cominciò a togliere i piatti. «Non farla lunga!»

Andrea le fermò il braccio. «Hai ragione. Scusami.»

«Non fa niente. La prossima volta lo farò con meno impeto.» E andò in cucina.

«E dai, non fare così… Stavo scherzando…»

Sofia mise i piatti nel lavandino, aprì l’acqua, aspettò che diventasse calda poi iniziò a sciacquarli. A un tratto rivide quella mano sul suo braccio, proprio co-me sulla scalinata della chiesa. “Ma perché fuggi così?

Aspetta…” Quell’uomo. Lui l’aveva fermata, lei aveva riso. Eppure quella mano non se l’era più tolta di dosso.

Aveva scopato con lui quella sera, lo aveva desiderato toccandosi, toccandolo, prendendolo in bocca, facendo l’amore sopra quell’uomo e alla fine era venuta con lui.

Ora l’acqua era diventata troppo calda, aprì un po’ di più quella fredda. Per la prima volta aveva tradito Andrea anche se solo con il pensiero. E gli aveva detto una bugia, la prima in dieci anni. Qualcosa si era rotto.


«No. Bisogna comprare.»

Tancredi appese il telefono. Era sicuro delle indicazioni date. Il mercato stava scendendo e bisognava assolutamente continuare a comprare. Nel giro di un anno o due sarebbero risalite tutte le quotazioni su cui aveva puntato di più. Tutti i suoi investimenti avevano prodotto un aumento del venticinque per cento netto nell’ultimo anno e lui lo aveva reinvestito in aziende importanti in difficoltà, comprandone le quote di maggio-ranza. Aveva importato dal Sudamerica qualunque tipo di merce: caffè, frutta, perfino legno, carta, carbone.

Aveva investito in miniere e grandi terreni per la col-tivazione. A capo di tutto questo settore aveva messo un giovanissimo analista finanziario, un broker di poco meno di quarantanni a cui aveva affiancato un com-mercialista. Costruiva per ogni settore quello che lui chiamava il “tris magico”, uno specialista della materia, un capace investitore e uno che facesse tornare i conti.

Il suo segreto era chiudere sempre con un punto in più per se stesso. Dal giorno in cui aveva adottato quella strategia, il suo patrimonio era aumentato in maniera esponenziale.

Erano passati dodici anni da quando aveva ricevuto in eredità il grande patrimonio di suo nonno e da allora non aveva fatto altro che comprare e vendere, mone-tizzare e reinvestire. Ogni anno si liberava di qualche azienda improduttiva e ne comprava nuove nascenti.


Seguiva l’andamento di tutti i mercati, aveva grande curiosità per la new economy e aveva investito già alla fine degli anni Novanta nei nuovi mercati di Cina e India.

Era stato da subito un patito dei social network e di ogni altra novità che producesse denaro, anche se virtuale. In quel campo aveva raddoppiato il numero dei collaboratori: sei. Due specialisti per ogni settore che, fino a quel momento, si erano comportati egregiamen-te. Avevano portato a casa così una cifra pari a mille-cinquecento milioni di dollari e il patrimonio investito continuava a dare profitti.

Tancredi si appoggiò allo schienale della poltrona e guardò fuori dalla finestra. Dall’alto della sua villa a Lisbona, nella parte più verde e più ricca della città, si vedeva l’oceano. Un veliero era piegato nel vento e attraversava quel tratto di mare a grande velocità. Più lontano, all’orizzonte, qualche petroliera sembrava semplicemente un punto fermo. Si chiese curioso se fosse una delle sue.

Fare soldi era la cosa che gli riusciva meglio, gli sembrava la più facile e la più ovvia. Ottenuti dai suoi collaboratori i dati che gli servivano, capiva immediatamente, seguendo il suo istinto infallibile, quale sarebbe stata la mossa vincente. E ogni volta era un successo. Aveva perso il conto delle sue proprietà, delle aziende, delle automo-bili, degli aerei, delle barche, degli immobili. Sapeva solo di avere anche un’isola e di non averne voluto comprare un’altra per paura di confonderle. Quella terra in mezzo al mare era il suo porto, il suo angolo di tranquillità. Solo lì si sentiva stranamente sereno. Era come se, una volta arrivato, tutta la sua inquietudine lo abbandonasse. Forse per questo era il posto che visitava meno spesso? Fermarsi lo faceva tornare indietro a quel giorno. Il giorno di Claudine. Quando era morto il nonno, avevano aperto il testamento. I tre nipoti avevano ricevuto cento milioni di euro a testa e la parte che sarebbe spettata a lei era stata divisa tra lui e suo fratello Gianfilippo. Lo aveva trovato ingiusto: quei cento milioni di euro appartenevano a Claudine, sarebbero dovuti essere qualcosa di importante, di significativo. Avrebbero dovuto rappresentare in qualche modo il ricordo della sorella. Una fondazione o qualcos’altro, qualcosa che comunque rimanesse, che parlasse ancora e sempre di lei.

Gianfilippo non era stato d’accordo. «È stata una decisione di nonno. Lui ha voluto che ci dividessimo la sua parte tra noi. Ognuno ricorderà Claudine come meglio crede. Così è stato deciso.»