Improvvisamente la musica finì. Allora Tancredi fu come se si ridestasse. Si girò. Destra. Sinistra. Quasi sgomento. Lei non c’era più. Poi sentì un applauso, delle risate, guardò verso il centro della chiesa, i ragazzi erano in festa, l’anziana insegnante in mezzo a loro e quella donna li aveva raggiunti. Non riusciva a sentire in maniera distinta le loro voci ma si accorse che dovevano conoscerla. Qualcuno le tirava la giacca, qualcun altro era sotto di lei che la guardava, una bambina sorrideva e poi sbuffava attirando la sua attenzione. Allora la donna si piegò e le scompigliò i capelli e quella bambina l’abbracciò stretta stretta malgrado le sue piccole braccia non riuscissero a superare neanche la metà della sua schiena. Tancredi sorrise. Le volevano tutti bene. Avrebbe voluto essere uno di loro. Poi si mise a ridere immaginando cosa avrebbero detto quelli che lo conoscevano di quel suo pensiero. Be’, se non altro quella donna lo metteva di buon umore.
Sofia prese in braccio Simona, quella piccola peste che non doveva avere più di sei anni, ma che in com-penso aveva una voce melodiosa e perfettamente into-nata. «Allora…» le disse sorridendole, «sei diventata bravissima, ma come hai fatto?»
«La nostra insegnante Olja» e indicò con il mento l’anziana maestra. «E lei che ci spiega tutti i trucchi…»
Sofia la strinse a sé. «Ma non sono trucchi. Non ci sono inganni in quello che fai, solo la tua bravura, il tuo impegno, l’allenamento e la passione.»
Simona l’abbracciò nascondendosi tra i suoi capelli.
«Sì, ma con te mi divertivo molto di più…»
Stette al gioco e le sussurrò a sua volta: «Sì, è vero, noi ci divertiamo sempre un sacco». Poi la mise a terra.
Simona corse di nuovo nel gruppo a giocare con gli altri.
Olja si avvicinò a Sofia. «Mi ha fatto piacere che tu sia passata.»
«Sì.» Guardò tutti quei bellissimi bambini, avevano un candore, una luce e una purezza unici. Aver cantato fino a quel momento li aveva in qualche modo affati-cati. Ora sembravano dei grandi che chiacchieravano educatamente dei tanti impegni della vita, con un’unica differenza: erano privi di qualsiasi malizia. «Sono diventati veramente bravi. Avete fatto la Corale di Bach…
non so, ero davvero affascinata.»
«Già. Potrebbero esserlo ancora di più, tutti possiamo migliorare, lo diceva sempre Bach, appunto.»
Sofia fece finta di non sentire. Olja però la conosceva bene e decise che era il caso di affondare ancora di più la lama. «Pensa a cosa hai rinunciato tu. Ma se proprio non vuoi suonare più, sono sicura che saresti un’ottima mamma. La vita ti si riempirebbe.»
Non si voltò. «Olja, la mia vita era la musica, suonare è ciò che ho amato, amo e amerò per sempre e proprio per questo ho deciso di rinunciare.»
«Ancora oggi, a distanza di così tanto tempo, maestri importanti mi chiedono di te, vorrebbero averti, potresti fare concerti in tutto il mondo. Sarebbero disposti a pagare anche cifre immense.»
«Non mi servono soldi. Quello che mi serve non me lo può dare nessuno.»
«E cosa ti serve, Sofia?»
Solo allora lei guardò la sua insegnante negli occhi.
«Un miracolo.»
A quel punto Olja non seppe più cosa rispondere.
Guardò allontanarsi in silenzio quel talento, quella giovane, superba promessa che sarebbe potuta arrivare lontano e che aveva deciso invece di chiudersi dentro casa. Fece un sospiro.
«Forza ragazzi, facciamo un’ultima prova. Prendete pagina dodici, voglio che alla messa di domenica tutti ri-mangano a bocca aperta con Ich will hier bei dir stehen.»
Fuori aveva smesso da poco di piovere. Sofia si fermò sui gradini della chiesa e fece un lungo respiro.
Chiuse gli occhi inebriandosi di quei profumi di erba bagnata, terra, vita. Sì, vita. E dov’era finita la sua? Il suo entusiasmo, le note del suo cuore? Quando riaprì gli occhi lui era lì, a pochi passi. Aveva visto quell’uomo all’interno della chiesa ed era rimasta sorpresa che un estraneo fosse venuto ad ascoltare quel coro, ma si era subito dimenticata di lui. Le era sembrato uno di quei turisti che vanno a fare jogging sull’Aventino e ne ap-profittano per entrare anche in qualche chiesa. Era un bellissimo ragazzo e le stava sorridendo. Per un attimo le sembrò di conoscerlo. Eppure, si sforzò, non lo aveva mai visto prima, poteva benissimo essere uno straniero.
Aveva degli occhi blu, scuri, intensi e in qualche modo freddi, l’abito poi non poteva aiutarla visto che aveva appena una maglietta e dei pantaloncini.
Mentre aspettava fuori dalla chiesa, Tancredi aveva immaginato il loro incontro. Ma quale sarebbe stata la frase giusta per una come lei? Non sapeva assolutamente nulla di quella donna, non riusciva a capire la sua estrazione sociale, le scuole frequentate, le origini, se fosse di Roma, di quale quartiere, che lavoro facesse.
Sapeva solo che doveva conoscere bene le note musicali. Sì, era una pianista o un direttore d’orchestra o forse una violinista. Ma lui sapeva poco di musica.
Rimasero ancora in silenzio sulle scale di quella chiesa, le nuvole si stavano aprendo. Su un prato poco lontano, a cavallo tra il verde e il cielo, c’era un arcobaleno che segnava la fine di quella pioggia. Tancredi si guardò in giro, quella luce così particolare, loro due fermi su quella scalinata. La situazione stava diventando imbarazzante.
«Sembriamo un quadro di Magritte. Lo conosci Magritte?»
“È italiano” pensò Sofia. “Ed è sfacciato.”
Tancredi sorrideva. Sofia lo fissò. Aveva un fisico asciutto, ben definito, era alto, muscoloso ma propor-zionato, poteva essere chiunque, anche un tipo pericoloso. Il suo sorriso però in qualche modo dava sicurezza, o meglio, c’era qualcosa in lui che lasciava intuire come una sofferenza lontana. Scosse la testa tra sé. Si stava facendo troppi film. Era semplicemente uno sconosciuto che voleva attaccare bottone. O peggio un poveraccio che voleva rubarle la borsa approfittando del suo fascino. Involontariamente la strinse a sé.
«Sì, conosco Magritte. Ma non mi ricordo però di un quadro dove ci sono due personaggi che perdono tempo.»
Tancredi sorrise. «Ti ricordi quel quadro dove c’è una pipa? E quello che conosce la maggior parte della gente. Sopra c’è scritto: “Ceci n’est pas une pipe…”.»
«Che vuol dire: “Questa non è una pipa”, conosco il francese.»
«Non lo metto in dubbio.» Sorrise di nuovo. «E che non mi hai fatto finire. Quel quadro vuol dire che tutto ciò che è, in realtà non è. La pipa è qualcosa di più, non è solo una pipa, è una rappresentazione, è l’uomo o la donna che l’hanno fumata prima o è semplicemente un quadro famoso. Così noi…» Sofia faceva fatica a seguirlo, ma il suo sorriso era di una bellezza imbarazzante, «cioè noi non siamo solo due personaggi che perdono tempo. Se Magritte avesse potuto scegliere magari saremmo altro, ci troveremmo in un suo quadro in chissà quante possibili realtà… Potremmo essere due amanti del passato alla corte di un re, o due che passeggiano a Parigi o a New York o su un prato londinese o in un grande teatro, interpreti di chissà quale rappresentazione in costume. Perché hai visto in noi una perdita di tempo?»
Quasi inebriata da quelle parole, Sofia si era lasciata trasportare attraverso tutti quei quadri che Tancredi le aveva fatto vedere. Loro due modelli di Magritte… E
quell’uomo continuava a sorridere e a parlare e lei quasi non ascoltava, persa nei suoi occhi, nella sua divertita convinzione che tutto fosse possibile.
«E magari tu suoni, sei una pianista in una sala di Parigi e io accanto al tuo pianoforte che giro le pagine del libretto.»
Quell’ultima immagine fu come un sussulto, la riportò di colpo alla realtà, all’impossibilità di tutte queste fantasie.
«Ti devo dare una brutta notizia.» Tancredi rimase come interdetto, tutto quel suo entusiasmo gli si spense in bocca. «Magritte è morto tanto tempo fa.»
Sofia lo superò e prese a scendere veloce gli scalini della chiesa.
Tancredi pronto le fu subito dietro.
«Mi hai fatto preoccupare. Sì, lo sapevo… Ma perché fuggi così? Aspetta…»
Così la fermò sulle scale mentre stava per andar via.
Sofia guardò la sua mano che le bloccava il braccio ma non ebbe paura, anzi. Provò un brivido improvviso, una sensazione nuova, assurda. Appartenere lì sulla scalinata di quella chiesa a uno sconosciuto. Si vergognò di quel desiderio, di quella voglia che l’aveva travolta in quell’istante, sorprendendola. Il cuore le batteva forte.
Ma che sto facendo? Sono pazza? Cos’è che mi ha preso? Sì. Sconvolgere la mia vita, fare l’amore adesso così, su questi scalini, con lui, farmi prendere tra la polvere e il bagnato. Non credeva a quello che le era passato per la testa. Perfino il respiro si era fatto corto, affannato.
Alzò lo sguardo su di lui. Ma Tancredi non capì.
«Scusa… volevo solo non farti andare via.» Abbandonò il suo braccio. «Non credi che nulla accada per caso? Oggi era un giorno qualunque, io stavo correndo quando all’improvviso ha cominciato a piovere a dirotto come non è mai capitato in questi giorni e allora sono entrato in chiesa… Sai da quanto non vado in chiesa?»
Tancredi pensò a Claudine ma fu solo un attimo. «Da quasi vent’anni ormai… Ci volevi tu per farmi ravvici-nare alla fede.»
Sofia sorrise. «Non mi hai fatto ridere. Non si scherza su queste cose.»
«Non è vero, ti ho visto che sorridevi…»
«Be’, allora stavo sbagliando anch’io.»
Tancredi si fermò e fece un lungo respiro. «Hai ragione. Ripartiamo da prima. Non potrebbe essere un segno del destino? Qualcosa che faccia riflettere tutti e due, forse le nostre vite non vanno bene, dobbiamo ricominciare da qui, da oggi…»
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