«Torniamo in città.»
Roma. Aventino. Nelle stradine intorno agli antichi archi, all’inizio della via Appia, tra le ville romane e le grandi pietre del passato, Tancredi correva.
Scorci di verde, caldo. Si teneva in forma ogni mattina, dovunque fosse, New York, San Francisco, Londra, Roma, Buenos Aires, Sidney. Correre per lui era una distrazione, un riordinare pensieri, un disporre giorna-te, programmi, desideri. Correndo gli erano venute le idee più belle. Era come se piano piano si mettessero a fuoco da sole, come se diventasse chiaro ogni volta il giusto passaggio.
Aumentò il passo. All’interno del minuscolo iPod ultimo modello c’erano successi di tutto il mondo: Sha-kira, Michael Bublé, i Coldplay, la playlist che Ludovica Biamonti aveva predisposto per lui. Era lei ad aver preso il posto di Arianna e ormai da più di tre anni tutto procedeva nel migliore dei modi. Era una personal stylist perfetta, di un gusto impeccabile. Aveva costruito una rete di persone che curavano ogni minimo dettaglio della vita di Tancredi. L’acqua che lui amava e beveva, la Ty Nant, la trovava in ogni casa, dalla Sicilia al Piemon-te, da Parigi a Londra, da New York alla sua minuscola isola alle Fiji. Dovunque andasse l’acqua sarebbe stata quella. Così come la scelta dei vini, del caffè e di ogni altro prodotto, che veniva testato, assaggiato e valutato prima di occupare il suo posto nelle varie case. Non so-lo. Ogni fine mese veniva fatto in ogni casa l’inventario di tutto, ciò che c’era, ciò che mancava e in qualunque momento Tancredi arrivasse era come se avesse vissuto lì dal giorno prima. Dal pane fresco al latte, dal giornale alla rassegna degli ultimi avvenimenti importanti del luogo dove si trovava e di quelli internazionali.
Ogni anno Ludovica Biamonti sostituiva completamente gli arredi, rendendoli inevitabilmente à la page.
Eccetto la casa alle Fiji, isola talmente bella e naturale, che non aveva bisogno di cambiare troppo nel tempo.
Lì il progetto di un grande architetto aveva reso la villa un gioiello incastonato nelle rocce, in perfetta armonia con il verde dell’isola. Una piscina naturale entrava in casa. Murene, squali, grandi tartarughe, vivevano sul fondo della piscina, al di là di quello spesso cristallo di oltre dieci centimetri. Si poteva quindi fare il bagno come se si fosse all’interno di un grande acquario senza correre assolutamente alcun rischio.
Il salotto era in legno bianco, proveniente dalle grandi foreste russe dove Tancredi aveva comprato per anni grandi appezzamenti di terreni, allargando così a dismisura il suo impero e senza mai figurare in alcun modo.
Agli occhi di tutti era un semplice ragazzo di trentacin-que anni, elegante forse, che amava le cose belle, ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che occupasse i primi posti nella classifica degli uomini più ricchi del mondo.
Ludovica Biamonti aveva pensato a tutto, quella di-mora era incantevole, un salotto elegante, un’unica vetrata immersa nella natura, e i divani color tortora, che si intonavano perfettamente con i due quadri, Aha o e feti? di Paul Gauguin e A Bigger Splash di David Hockney. In un angolo c’era invece la scultura di Damien Hirst, Lo squalo. Quella casa era perfetta per una vita d’amore. Ecco forse perché era quella in cui Tancredi con meno facilità si fermava durante i suoi viaggi. Perché lui era l’uomo colto, ricco, l’uomo che non voleva amare. Quella casa, come del resto le altre, non avrebbe mai udito le risate di una donna felice e amata, come non avrebbe udito le risate di un figlio. Eppure Ludovica Biamonti non sapeva ancora che si stava sbagliando su una cosa.
L’anno dopo averla assunta, Tancredi aveva controllato personalmente tutte le proprietà. Aveva guardato con cura ogni singolo dettaglio, dai frigoriferi alle tende nuove, dai tappeti agli asciugamani, dalle lenzuola ai piatti. Aveva viaggiato ininterrottamente con il suo jet ed era tornato pochi giorni dopo aver visitato tutte le case. Solo allora aveva confermato la sua assunzione.
«È perfetta, prendiamola!» aveva detto a Gregorio e poi, uscendo dall’ufficio, lo aveva guardato. «Ma è sposata sul serio, vero? Non vorrei trovarmi di nuovo con Sara in piscina…» aveva continuato scherzando.
Gregorio aveva riso. Il giorno dopo però era andato a controllare personalmente i documenti del matrimonio della signora Ludovica Biamonti con un certo Claudio Spatellaro. Era tutto vero, sposata in chiesa e in comune. Solo allora Savini aveva tirato un sospiro di sollievo.
Improvvisamente un tuono. Come un segno del destino. A cielo aperto, in uno splendido pomeriggio di giugno. Inaspettato. Violento. Cupo. E subito un capo-volgersi del mondo. Il cielo diventò scuro. Il sole scomparve e un vento leggero alzò le poche foglie finite a terra. Poi quella pioggia improvvisa, violenta, rabbiosa, grossa. A dirotto, come vere e proprie secchiate d’acqua che arrivavano dall’alto, da chissà quale sciocco inqui-lino infastidito dalle chiacchiere notturne di nessuno.
Tancredi stava ascoltando Ben Harper quando si trovò travolto da quell’improvviso nubifragio estivo. E
accelerò il passo, in un attimo completamente zuppo con l’acqua che gli entrava nella maglietta, nei pantaloncini, nelle mutande, nei calzettoni e poi nelle scarpe.
E gli venne da ridere, lui sempre così preciso, metodico, quasi infastidito da qualsiasi imprevisto sulla sua tabella di marcia, si ritrovò ragazzo sotto quell’acqua. Il cielo era diventato ancora più scuro e la pioggia era diventata fredda, un attimo dopo era grandine. Cadeva giù a toc-chi, piccoli e grandi sassi che rumoreggiavano su ogni cosa fosse lì intorno. Secchi dell’immondizia, lamiere, macchine, sembrava un facile tiro al bersaglio dall’alto o uno strano concerto dal ritmo veloce e continuo pescato da chissà quale repertorio africano.
Tancredi decise che era il momento di sottrarsi a quella pioggia. Poco oltre il ciglio della strada vide una chiesa. Fece a due a due gli scalini e arrivato sotto il porticato trovò subito riparo. Ma il vento continuava a soffiare, anzi sembrava aumentato. La pioggia e la grandine ora cadevano di traverso e quel riparo era inutile.
Allora Tancredi si appoggiò al grande portone in legno.
Era aperto. Lo spinse con tutte e due le mani e la cosa che lo colpì di più, entrando in quella chiesa, furono la luce e il calore. Moltissime candele di tutte le dimen-sioni erano accese su antichi candelabri, alcuni piccoli, bassi, altri più elaborati. E tutte le fiammelle ondeg-giavano, si piegavano avanti e indietro assecondando quell’improvvisa corrente. Quando Tancredi accostò il portone tutto tornò come prima. La porta si richiuse da sola con un tonfo sordo, poi dal lato opposto della chiesa tutte insieme delle voci.
Due violini, una viola, un flauto e pochi altri stru-menti. I dieci bambini terminarono un’aria che anche dalle poche ultime note sentite gli sembrò bellissima.
Un lungo silenzio. Poi una donna davanti al coro si mi-se a cantare. In tedesco. Di fronte a lei l’anziana maestra all’organo suonava sorridendo, con sicurezza, come se fosse la cosa più semplice del mondo. Accanto a lei una maestra accarezzava con le mani l’aria indicando per tutti il tempo. Poco più in là le fiammelle delle candele sembravano quasi tenere il tempo e i disegni delle vetrate cambiavano improvvisamente colore, di sicuro per il passaggio di nubi nel cielo. Un gioco di luci e ombre rendeva l’atmosfera di quella chiesa ancora più magica.
Erbarme dich, mein Gott, um meiner Zähren willen!
Abbi pietà, mio Dio, delle mie lacrime…
Poi all’improvviso, senza alcun motivo, Tancredi si girò. Era come se avesse sentito qualcosa. Ma non era stato nulla. O forse tutto. Dal buio di una delle navate, a pochi passi da lui, dalla penombra più fitta, lei fece un passo in avanti. Improvvisamente il suo viso prese luce da quelle fiammelle. Tancredi rimase a bocca aperta.
Quel delicato profilo, quegli occhi azzurro-verdi, quelle leggere lentiggini, quei capelli castani accesi da riflessi biondi, quella donna, quella bellezza, le sue labbra dischiuse, quei denti bianchi, perfetti. Tancredi sbatté gli occhi come se non volesse credere a ciò che vedeva, come se fosse un’apparizione. Ma soprattutto rimase sorpreso: il suo cuore batteva veloce. Quella donna era lì, a pochi metri da lui, nella penombra della chiesa. Ora le fiammelle delle candele ballavano e la illuminavano a tratti, mostrandola per intero. Era alta, snella, con una camicia bianca sotto una giacca blu, dei jeans e delle scarpe da ginnastica. Tancredi cercò di capire da dove venisse, chi fosse. Guardò le sue mani, erano segnate, rovinate dal freddo o da chissà quale incredibile fatica, eppure si muovevano leggere nell’aria. Piccoli, quasi impercettibili movimenti di ogni singolo dito segnavano il tempo, danzavano nel nulla, scandendo perfettamente ogni singola nota. Era sicuramente una pianista.
Tancredi era affascinato da quelle mani. Le guardò di nuovo il viso. Aveva gli occhi chiusi, ondeggiava lentamente la testa a destra e sinistra seguendo la musica.
Tornò a guardarle le dita, cercò il segno di una fede, non la trovò e per la prima volta fu felice. Ma quando guardò meglio e la vide, allora ne fu dispiaciuto. Poi pensò che nulla è per sempre, che avrebbe potuto comunque averla. Poi sorrise. Stava facendo dei pensieri di quel genere proprio all’interno di una chiesa. Continuò a guardarla, e se avesse incrociato i suoi occhi?
Cosa avrebbe fatto? Un sorriso? Uno sguardo deciso e determinato a trasmetterle il suo desiderio?
E proprio in quel momento accadde. La donna si girò lentamente verso di lui e i suoi occhi incrociarono quelli di Tancredi. Lo fissarono. E fu come se in quell’attimo entrassero dentro di lui, nel suo cuore, scardinando antiche regole che lo avevano come chiuso, ibernato, spinto in fondo a una cella segreta. Lei semplicemente sorrise. E fu un sorriso tenero, educato, di una donna che stava condividendo con quell’uomo solo una cosa: la passione per la musica. E Tancredi non seppe cosa rispondere, non resse quel semplice, educato sorriso. Si voltò, fece finta di niente, abbassò la testa addirittura imbarazzato, quasi confuso per quella sua reazione.
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