Aveva sempre avuto delle relazioni molto brevi, quanto la sua permanenza in un luogo. Certo, ora era già qualche mese che stava con quella famiglia, lo pa-gavano bene, il posto gli piaceva e forse questa volta sarebbe rimasto più a lungo del solito. Magari avrebbe conosciuto una ragazza del posto e passato tutto il resto della sua vita lì.
Tancredi lo tirò per la giacca. «Gregorio, posso salirci?»
«Non hai paura?»
«Perché dovrei? Questo cavallo è mio, me l’ha regalato mio padre.»
“Già, questo bambino ragiona così.”
«Ma non è una cosa, è un animale e gli animali sono diversi dagli uomini. Sono istintivi. Non lo puoi comprare, se si trova bene con te allora non avrai problemi, altrimenti potrebbe anche non essere mai tuo.»
«Neanche se l’ho pagato proprio io…»
Gregorio sorrise. «Neanche in quel caso.»
«E come si può fare allora?»
«Con l’amore. Vieni.» Lo prese in braccio, lo avvicinò al cavallo e piano piano gli portò la mano verso la criniera. «Ecco, accarezzalo, così.» Ma appena Tancredi ci provò, il cavallo nitrì alzando il muso all’improvviso, tanto che il bambino ritrasse subito la mano, spaventato. Gregorio Savini rise.
«Ma come, hai detto che non avevi paura!»
«Me l’hai fatta venire tu con tutti quei discorsi!»
Gregorio lo mise giù. Era furbo. «Tieni, dagli queste…» Gli passò un po’ di zucchero. Questa volta il cavallo fu più tranquillo e Tancredi riuscì a mettergli delle zollette in bocca prima di tirar via la mano. Dopo appena una settimana, era sul cavallo e passeggiava nel recinto davanti alle stalle. Gregorio lo teneva a bada con una lunga corda, facendolo girare in tondo e pian piano Tancredi stesso, dando di tacco per quel che poteva, lo portò al trotto.
«Ecco guarda, Gregorio… Ora va, cammina… Funziona!»
«Ricordati che è un animale e ha bisogno del tuo amore.»
Mentre andava, Tancredi gli accarezzò il collo e gli disse qualcosa all’orecchio. Gregorio fu felice di avergli insegnato ad andare a cavallo. Quella fu la prima delle tante cose che gli insegnò, ma poi Tancredi crebbe e dopo la morte di Claudine cambiò. A diciannove anni decise di abbandonare per sempre la villa in Piemon-te, cominciò a viaggiare e volle Savini sempre con sé.
Forse anche per questo Gregorio aveva abbandonato l’idea di avere un figlio, perché in qualche modo l’aveva trovato in lui e senza le naturali complicazioni di avere vicino una donna. Il loro rapporto era andato crescendo anche se avevano mantenuto sempre un certo distacco.
«Ecco. Siamo arrivati.»
Le pale del motore cominciarono a rallentare mentre i pattini toccavano terra affondando nella neve. Non fecero in tempo a scendere dall’elicottero che un vecchio indiano gli venne incontro.
«Ben arrivati! Com’è andato il viaggio?»
«Benissimo, grazie.»
«Immagino che vorrete riposare un po’… Ci sono due tende tutte per voi. Dentro troverete anche del materiale nuovo per stare più caldi, come mi avete chiesto.
Vi ho fatto prendere giubbotti in pile e microfibra. Andate pure, io vi aspetterò qui fuori.»
Tancredi guardò Gregorio e gli sorrise. Savini aveva pensato proprio a tutto, nei minimi particolari e in pochissimo tempo. Un uomo così era di un valore unico.
“Sono stato fortunato” pensò e scomparve nella sua tenda. Quando più tardi uscì, Gregorio e l’indiano erano già pronti. Montarono tutti e tre sulla jeep e salirono sulla montagna per le strette strade del monte.
«Io sono Peckin Puà. O almeno così mi chiamano da queste parti. Il mio vero nome è molto più lungo e molto più difficile ma è inutile che ve lo dica perché ormai mi sono talmente abituato a questo che, se mi chiamaste con l’altro, forse neanche mi girerei… Ah ah.» E rise da solo con una risata un po’ goffa che alla fine inciampò in un colpo di tosse, facendo intuire in qualche modo il vizio del fumo. Del tutto assente, invece, il senso dell’umorismo.
Tancredi e Gregorio si guardarono. Gregorio allargò le braccia sentendosi in qualche modo responsabile di quell’inutile tentativo di cabaret. Tancredi gli sorrise, tutto sommato anche questo faceva parte della bellezza dello scenario. La jeep saliva lungo la stretta e ripida strada della montagna. Il sole stava sorgendo velocemente, alcune pareti si illuminarono all’improvviso. La neve brillava e rifletteva la luce rosa dell’alba che andava a colpire gli anfratti più bui e nascosti.
«Ci fermiamo qui.» Scesero tutti e tre dalla jeep.
Peckin Puà chiuse gli sportelli e aprì il grande bagaglia-io. «Mettetevi queste…» Allungò a Tancredi e Gregorio delle grandi racchette da neve. Subito le calzarono. «E
ora prendete questi.» Passò loro la vera ragione per cui Tancredi era voluto andare fin lassù. Le balestre in fibra di carbonio. Leggere, precise, mortali. Avevano dieci frecce già pronte nel caricatore e una ipotetica portata e precisione fino a trecento metri. Tancredi aveva scoperto quest’arma micidiale in un articolo e l’idea che in Canada ci fosse quella nuova caccia l’aveva improvvisamente entusiasmato.
«Andiamo di qua e tenete le punte verso il basso.»
Ora Peckin Puà non scherzava più. Camminarono lentamente nel canyon e con grande fatica risalirono una collina di neve fresca. Continuarono così per più di un’ora quando arrivarono all’ingresso di un canyon più piccolo.
«Shhh…»
Peckin Puà si accucciò dietro una roccia.
«Dovrebbero essere qui.»
Piano piano sollevò la testa facendo capolino da dietro un masso. Sorrise. Sì. Proprio come pensava. Pasco-lavano tranquilli in quella piccola radura, staccavano delle piccole bacche da alcuni cespugli. Il sole ormai era alto e faceva più caldo. Tancredi e Gregorio si avvicina-rono a quelle rocce e guardarono il punto indicato da Peckin Puà. Allora li videro. Era una bellissima coppia di cervi bianchi. Uno era più grosso, alto, austero, aveva le corna fitte e forti e ogni tanto le incastrava dentro quei cespugli e li scuoteva e quasi li sradicava tant’era la forza del suo collo. Ma così facendo aiutava la sua compagna a mangiare le bacche che erano cadute nella neve. Peckin Puà prese il binocolo che teneva al collo e li mise a fuoco. Poi guardò la numerazione sopra le lenti. «Sono più di trecento metri. È un tiro impossibile.»
«Difficile ma non impossibile» disse Tancredi, liberando la sicura della balestra.
L’indiano sorrise. «Sì, quasi impossibile e molto fortunato.»
Tancredi si accovacciò, armò la balestra e la poggiò tra le rocce. Poi accostò l’occhio al mirino. E improvvisamente quel cervo maschio comparve nella lente. Bello, distratto, innocente. Continuava sotto il sole la sua lotta con i rami del cespuglio, se li scrollava quasi di dosso, ballava con le corna arcuando la schiena, mostrando la forza dei suoi muscoli, di quelle zampe selvagge abituate da sempre ad arrampicarsi tra quelle rocce. Poi fu come se sentisse qualcosa. Si fermò di colpo nell’aria. Alzò la testa e fissò un punto. Rimase fermo, immobile, sospet-toso. Aveva avvertito qualcosa. Un pericolo, un altro animale, ancora peggio, l’uomo. Il cervo si girò a scatti una volta, due. I riflessi del sole incrociarono il suo sguardo e non vide nulla. Allora, incauto, ritornò a occuparsi del cespuglio.
Tancredi portò l’indice sul grilletto.
«Fermo.» La mano dell’indiano si posò all’improvviso sulla balestra.
Tancredi si girò verso di lui. Lo fissò. L’indiano non si staccò dal suo potente binocolo. «Guarda.» Indicò con la mano in quella stessa direzione. Tancredi rimise l’occhio al mirino e lo spostò di pochi millimetri. Tra i due cervi spuntò all’improvviso un giovanissimo cerbiatto bianco. Arrancava incerto sulle sue giovani zampe, scivolava, cadeva ogni tanto con il muso nella neve.
Allora la madre lo rimetteva in piedi, aiutandolo come poteva, spingendolo da sotto. Al sole, tra quelle montagne innevate, regnava il silenzio.
Alti pini carichi di neve ogni tanto liberavano i propri rami. Si sentiva allora il suono di una cascata attutito da quell’ultimo manto di neve sotto gli alberi e quell’eco aleggiava leggera per tutta la vallata. La famiglia di cervi bianchi era libera, felice, completa, nel suo perfetto ciclo naturale: vivere, nutrirsi, riprodursi.
Peckin Puà sorrideva guardandoli. «Troveremo qualche altro esemplare più in là, spostiamoci.»
Tancredi scosse semplicemente la testa. Gregorio ca-pì cosa intendeva. Fermò l’indiano. «Siamo venuti per cacciare, non per fare i sentimentali.»
«Ma…»
«I soldi che ha voluto, e sono tanti, non guardano in faccia le emozioni.»
La discussione sarebbe potuta andare avanti se non ci fosse stato quell’improvviso sibilo. La balestra eb-be un minimo sussulto. La freccia era partita. Peckin Puà prese il binocolo con tutte e due le mani, lo strinse forte, lo portò subito agli occhi cercando di vedere, di seguire quella freccia, sperando che sbagliasse. Da trecento metri quell’inesperto cacciatore avrebbe potuto non fare centro. E invece… Stock. Quell’immagine im-macolata, i due giovani cervi, il piccolo in mezzo a loro, la montagna bianca alle loro spalle, il manto di neve sugli alberi. Fu come se improvvisamente si incrinasse.
La neve ai piedi di quel quadro cominciò a tingersi di rosso. L’indiano abbandonò il binocolo.
«Ha sbagliato bersaglio.»
Tancredi rimise a posto la balestra. «No. Era il più difficile. Avevo mirato lui.»
Il piccolo cerbiatto piegò le gambe e cadde con il muso a terra frenando nella neve. Il cranio era stato trafitto da parte a parte e una piccola pozza di sangue si formò lentamente intorno a lui. I due cervi adulti erano immobili, osservavano la loro creatura senza capire. La caccia era terminata.
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