In fondo quel ragazzo le era simpatico, aveva sì e no dieci anni ed era veramente sveglio e divertente. Aveva anche alcuni atteggiamenti da uomo. Le sarebbe piaciuto avere un bambino così. Un figlio. Per un attimo quell’idea le sembrò lontanissima, come se non facesse parte dei suoi sogni, dei programmi che da ragazza progettava. Allora programmava tutto, tanto da essere addirittura presa in giro dalle sue amiche. Come la chiamavano? Ah sì, “la calcolatrice”. E poi invece un giorno si era arenato tutto. Come una grande nave pronta a salpare, a fare il giro del mondo, carica di provviste di ogni genere, dallo champagne all’acqua minerale, dai formaggi ai dolci, dai vini della Borgogna a quelli au-straliani. Insomma, pronta a stare in mare per sempre, a non dover fare scalo in nessun porto… E poi invece stop. Quella nave si era spiaggiata, e con tale forza, a tale velocità, che non poteva più essere tirata fuori da quella sabbia. Non andava né indietro né avanti, così come la sua vita, inceppata. Come un’arma che scatta male. Un ferro incastrato che fa clang. Ecco. E il suo amore per Andrea? Perché ultimamente faceva questo suono sordo? Perché il suo cuore non sentiva quella musica che tanto amava?

Andò alla macchinetta a prendersi un caffè. Mentre lo beveva, si sentì chiamare.

«Sofia?» Si girò.

La sua anziana insegnante di piano era lì di fronte a lei, nel corridoio buio della scuola dove lei stessa tanti anni prima aveva suonato le sue prime note. «Ciao, Olja.»

Olja, o meglio Olga Vassilieva, insegnava con Sofia alla chiesa dei Fiorentini e al conservatorio. Era russa e vestiva ancora in modo antiquato, portava gonne larghe ricoperte da una strana sopragonna preso da chissà quale baule sopravvissuto al primo arrivo in Italia della sua famiglia. Le due donne si abbracciarono, poi Olja si scostò da lei ma la tenne ancora tra le braccia.

«A cosa pensavi?»

«Perché?»

«Avevi un’espressione… era scomparso il tuo solito sorriso.»

“E per un attimo sei sembrata vecchia come me”

avrebbe voluto aggiungere la sua insegnante, ma sapeva che quelle parole forse l’avrebbero ferita.

«Oh» sorrise Sofia. «Alle cose che ho dimenticato di fare…»

«O a quelle che hai smesso di sognare?» Olja non le diede tempo di rispondere. «Hai avuto un dono specia-le ed era particolarmente bella la tua innocenza.»

«Quale innocenza?»

«Di trovare naturali le capacità che avevano queste fantastiche dita.» Prese le sue mani. «Guarda che non mi dimentico che insieme abbiamo preparato Rachmaninov… e avevi soltanto diciassette anni. Ora invece le vedo segnate, stanche, rovinate. E soprattutto…» cercò i suoi occhi, «ti vedo colpevole.»

«Ma va’, Olja… Io non ho fatto niente.»

«E proprio questa la tua colpa. Non hai fatto niente.»

Ora Sofia era diventata seria. «Te l’ho detto che non avrei più suonato. È stato un voto per lui, per la sua vi-ta. Ho pregato per questo e ho rinunciato alla cosa più bella che avevo, rinunciare al resto sarebbe stato facile… Spero che un giorno lui possa guarire e io tornare a suonare. Ma purtroppo per ora non è stato possibile…»

E Olja vide in quel “per ora” una traccia di speranza, un barlume di luce, quel lumino che a volte si lascia acceso nella stanza dei bambini per rassicurarli se mai si svegliassero di notte. Allora sorrise. Era ancora una ragazzina, ma proprio per le sue capacità, e soprattutto per il suo amore per la vita, doveva essere risvegliata.

«Sei colpevole, Sofia, non perché hai rinunciato alla musica, ma perché hai rinunciato alla vita.»

E rimasero così, nel silenzio di quel corridoio, lì dove Sofia aveva iniziato i suoi studi a sei anni, conseguendo il diploma di pianoforte. L’unica tra tutti gli allievi del conservatorio in grado di suonare i Dodici studi trascendentali di Liszt a memoria prima del decimo anno.

Olja era stata la sua insegnante di pianoforte principale e non si era mai stancata di emozionarsi tutte le volte che la vedeva mettere le mani sulla tastiera, Sofia, la giovane promessa italiana, la pianista che avrebbe sorpreso il mondo, di questo si parlava nell’ambiente.

E ora eccola lì, una semplice insegnante.

Poi Olja la guardò con più dolcezza. «Anche i matrimoni o le storie più belle finiscono, ma non per questo non sono stati importanti. Quasi sempre ci si sforza per capire di chi è stata la colpa quando magari non è di nessuno dei due. Come è successo a te, Sofia.»

Allora lei abbassò gli occhi per trovare un po’ di tranquillità, come accade a quei pianisti che cercano il silenzio del pubblico e la propria concentrazione prima di portare entrambe le mani sui tasti del pianoforte.

Questa volta però non seguì nessuna esecuzione. Poi le fece un semplice sorriso, debole, fiacco ma a suo modo convinto. «Non posso.» E poi quello sguardo pieno di dolcezza che cercava il perdono di un’insegnante. Ma che non trovò. Olja non capiva.

Sofia si allontanò velocemente per il corridoio, poi cominciò a correre, salì le scale, aprì la porta, la spa-lancò e uscì dal conservatorio. Si ritrovò fuori, tra la gente, nella luce del giorno. Ferma in piedi, nella piazza, mentre la gente le passava vicino, davanti, dietro, ignorandola. Qualcuno andava all’edicola, qualcun altro entrava in un bar, altri passeggiavano chiacchieran-do, qualcuno alla fermata aspettava l’autobus. “Ecco”

pensava, “voglio essere così, ignorata, sconosciuta tra la gente. Non voglio fama né successo, non voglio essere una pianista dall’esecuzione perfetta, non voglio che si occupino di me, non voglio domande e non voglio trovare risposte.”

Allora si incamminò lentamente, come se fosse invi-sibile, non sapendo che presto invece si sarebbe trovata ad affrontare la domanda più difficile della sua vita.

Vuoi essere di nuovo felice?


Le pale dell’elicottero giravano veloci. Il pilota piegò di poco a destra la cloche, affrontando dolcemente quell’ultima cresta particolarmente innevata.

«Ecco, siamo arrivati. Il campo è laggiù.»

Gregorio Savini guardò con un potente binocolo a circa cinquemila metri di distanza. Il piccolo campo sembrava disegnato sul profilo del sole che stava sorgendo poco più in là.

Il pilota tirò a sé la cloche e disattivò alcuni inter-ruttori, preparandosi ad atterrare. Le pale rallentarono.

Gregorio lo studiò nei movimenti, era bravo anche se molto giovane. Dopo aver volato per ben sei ore con il jet personale di Tancredi, erano atterrati nell’aeroporto di Toronto e da lì erano ripartiti con l’elicottero per i monti intorno a Thunder Bay. Ormai erano quasi quattro ore che si trovavano in volo e sentiva qualche leggero acciacco. Aveva fatto di tutto nella sua vita: contractor, paracadutista, comandante di aerei e perfino l’elicotterista. Aveva pilotato anche il Sirosky S-, che ora stava guidando il giovane pilota ed era per questo che poteva apprezzarne le capacità. Per un lungo periodo da giovane aveva amato la guerra ed era stato mercenario, aveva conosciuto il sangue, la violenza e la crudeltà, tanto da averne la nausea. Allora era entrato nelle forze di terra impegnate in controlli e verifiche di eventuali attacchi terroristici. Era lì che aveva imparato tutte le più raffinate tecniche di intercettazione, copertura e intelligence. Non c’era persona della quale Gregorio Savini non potesse sapere tutto e anche con una certa facilità. Aveva costruito una rete di amicizie, fatta di favori e regali che piano piano si era estesa in ogni parte del globo.

Questo progetto era stato voluto da Tancredi. All’inizio Gregorio aveva accettato l’incarico con qualche reti-cenza, ma poi aveva capito quanto fosse importante per Tancredi. In poco tempo questa rete era servita a ogni loro necessità, qualsiasi problema trovava facilmente una soluzione o la strada più semplice da percorrere.

Gregorio si era così dovuto ricredere. E da quel giorno aveva guardato con altri occhi quel ragazzo.

Gregorio aveva un ottimo rapporto con Tancredi.

Era stato chiamato da suo padre fin da quando lui era molto piccolo per esserne il tutore, la guardia del corpo, l’autista, ma anche in qualche modo per fare le sue veci.

Era arrivato in quella villa che aveva quasi trent’anni.

«Perché hai la pistola?» Il piccolo Tancredi era spuntato dalla finestra aperta sul giardino. Gregorio se ne era accorto da tempo ma aveva fatto finta di niente.

Tancredi, il più piccolo dei fratelli, era anche quello più curioso nei suoi confronti.

«Questa?» sorrise alzando lo sguardo sul bambino alla finestra. «Serve a far comportare bene le persone cattive.»

Tancredi fece il giro ed entrò dalla porta, si appoggiò alla sedia di paglia che era nell’angolo. «E quante sono le persone cattive? Più di quelle buone?»

Rimase così con lo sguardo ingenuo e un bel sorriso da bambino ad aspettare curioso la risposta.

Gregorio finì di oliare la pistola e se la rinfilò nella fondina che portava sotto la spalla sinistra. «Sono lo stesso numero. Sono i buoni che a volte perdono di vista quello in cui avevano creduto un tempo.»


La risposta piacque a Tancredi, anche se forse non l’aveva capita del tutto.

«Allora devi sparare a Gianfilippo. Aveva detto che avremmo giocato insieme a tennis e ora è al campo che gioca con il suo amico. Prima era buono e ora è diventato cattivo.»

Gregorio gli accarezzò la testa. «Non si diventa cat-tivi per così poco.»

«Ma me l’aveva promesso!»

«Allora un po’ cattivo è stato. Andiamo a vedere i cavalli, ti va?»

«Sì, mi piacciono…»

Raggiunsero le stalle e passarono lì tutto il pomeriggio. Accarezzarono un giovane cavallo arabo, arrivato da chissà dove. Gregorio si trovava bene con Tancredi, aveva sempre desiderato un figlio e chissà che la vita non tenesse ancora in serbo questa sorpresa per lui. Ma per come si era abituato a vivere, non sarebbe stato facile.