Una scritta così poi. Io un ragazzo che mi fa una scritta così non
lo
lascerei mai. Ti posso fare una domanda?"
Non mi dà il tempo di rispondere.
"Ma perché vi siete lasciati?"
Rimango per un po' in silenzio. Poi accendo la moto. È l'unica
cosa che posso fare.
"Non lo so. Se avessi la risposta ti giuro che te la darei."
Sembra dispiaciuta sul serio. Poi viene rapita di nuovo dalla sua
allegria.
"Be', comunque, se passi un'altra volta da queste parti magari
ci mangiamo insieme un pezzo di quella pizza rossa, eh?"
La guardo e le sorrido. Io e Martina, undici anni, che ci mangiamo
la pizza. I miei amici impazzirebbero. Ma non glielo dico.
Almeno lei, con la sua età, che si tenga stretta i suoi sogni.
"Certo, Martina, se passo di qua."
Capitolo 15.
Paolo non è tornato. Forse non torna per pranzo. La casa è
perfettamente
in ordine. Troppo in ordine. Preparo la sacca. Calzettoni,
maglietta, pantaloncini, una felpa e mutandine. Mutandine.
Pollo mi prendeva sempre in giro perché usavo i diminutivi per
ogni cosa. "Facciamo un giretto. Ti va un caffettino? Mi
andrebbero
due pennette..." Questa cosa deve avermela attaccata mia madre.
Gliel'ho detto una volta a Pollo. Lui si è messo a ridere. "Quanto
sei donna," mi diceva, "hai una donna dentro." E mia madre ha
riso quando gliel'ho raccontato. Chiudo la zip della borsa. Mi
manchi,
Pollo. Mi manca il mio migliore amico. E non posso far niente
per farlo tornare. Non posso incontrarlo. Prendo la sacca ed esco.
Affanculo, non voglio pensare. Mi guardo allo specchio mentre
l'ascensore
scende. Sì. Non voglio pensare. Mi metto a cantare una
canzone americana. Non mi ricordo le parole. Era l'unica che
sentivo
sempre a New York. Una vecchia di Bruce. Cazzo, cantare fa
bene. E io voglio star bene. Esco dall'ascensore con la sacca
sulle
spalle. Canticchio: "Needs a local hero, somebody with the right
style...". Sì, era qualcosa del genere. Ma non importa. Pollo non
c'è
più. Piccolo eroe. "Lookin' for a local hero, someone with the
right smile..." Vorrei tanto parlare un po' con lui ma non è
possibile.
Mia madre invece abita da qualche parte ma non ho voglia di
parlare con lei. Ci provo di nuovo... "Lookin' for a local hero."
Cazzo
non ho imparato niente di quella canzone.
Flex Appeal, la mia palestra, la nostra palestra. Nostra, dei
nostri
amici. Scendo dalla moto. Sono emozionato. Cosa sarà cambiato?
Ci saranno altre macchine? E poi chi incontrerò? Mi fermo
un attimo nella piazzetta prima dell'ingresso. Guardo nella
vetrata
appannata dalla fatica e dal sudore.
Delle ragazze ballano al ritmo di una canzone americana nella
sala grande. Tra loro ci sono solo due uomini che tentano
disperatamente
di andare a tempo con il bodywork di Jim. Così leggo
sul foglio attaccato all'entrata che indica la speciale lezione o
quel che deve essere. Indossano scarpe, body, tutine e top quasi
tutte di marca. Pare una sfilata. Arabesque, Capezio, Gamba,
Freddy, Magnum, Paul, Sansha, So Danca, Venice Beach, o Dimensione
Danza. Come se nascoste dietro un nome potessero ballare
meglio. Come cazzo fanno due uomini a non vergognarsi per
quel miserabile tentativo di ginnastica. In mezzo a tutte quelle
donne poi. Body stretti e colorati, trucchi perfetti, calzamaglie
nere, pantaloncini o tute aderenti... e poi, due uomini in
calzoncini.
Uno pelato, l'altro quasi. Hanno la maglietta larga che nasconde
la pancia. Saltano scoordinati, affannati, disperatamente
alla rincorsa del ritmo. Ma non lo trovano. Anzi, qualcuno deve
averglielo nascosto per bene fin dall'infanzia. Insomma, fanno
pena.
Vado oltre ed entro. In segreteria c'è un ragazzo mezzo tinto,
capello lungo, faccia abbronzata. Parla sommessamente al cellulare
con un'ipotetica donna. Mi vede e continua per un po' a
chiacchierare,
poi alza lo sguardo e si scusa con una certa "Fede" al telefono.
"Prego?"
"Vorrei fare la tessera. Tutto il mese."
"Sei già stato qui da noi?"
Mi guardo in giro, poi guardo lui.
"Ma non c'è Marco Tullio?"
"No. È fuori. Lo puoi trovare domani mattina."
"Ok, allora mi iscrivo domani, sono un suo amico."
"Come vuoi..."
Non gliene frega più di tanto, d'altronde i soldi non sono suoi.
Vado nello spogliatoio. Due ragazzi si stanno cambiando per
allenarsi.
Ridono e scherzano. Parlano del più e del meno e di una certa
ragazza. "Niente, siamo stati a cena alla Montecarlo, la pizzeria.
Oh, non sai... Ogni due minuti le squillava il cellulare. Era
l'uomo
che sta facendo il militare. E lei giù che gli raccontava
cazzate."
"Ma no, giura!"
"Te lo giuro."
Ascolto mentre mi cambio, ma già immagino come va a finire:
"E lei che diceva 'ma no, no, sto a cena con Dora. Dai, te la
ricordi
quella che c'ha il negozio, è una parrucchiera'...".
"Ma dai, e lui?"
"E lui che poteva fare? Le credeva. Alla fine siamo andati a casa
sua e mentre lei mi faceva un pompino, ha squillato di nuovo il
suo telefonino."
"No! E tu che hai fatto?"
"Io? Ho risposto, che dovevo fare?"
"E che gli hai detto?"
"Mi dispiace ma in questo momento non può proprio rispondere,
sta discutendo con Dora! "
"Ma dai! Troppo forte." E giù risate.
"Da allora Dora è il soprannome che ho dato al mio uccello.
Eccolo qui..." lo tira fuori e lo mostra all'amico. "Ciao Dora,
saluta
Mario!"
Ridono come pazzi mentre il tipo con "Dora" in mano saltella
a piedi nudi sul bagnato. Alla fine scivola e cade per terra.
L'altro
ride ancora di più mentre io vado ad allenarmi.
"Tienimi le chiavi, le metto qui." Infilo le chiavi con le quali
ho
chiuso l'armadietto in un portapenne sulla scrivania. Il tipo alla
segreteria
mi fa un cenno con la testa e continua a chiacchierare al
telefonino. Poi ci ripensa. Mette la mano sopra il telefonino e
decide
di dirmi qualcosa.
"Ehi capo, per oggi puoi allenarti, ma domani devi fare la
tessera.
"
Mi guarda soddisfatto con la faccia un po' da paraculo, un po'
da duro. Poi con un sorriso ebete torna a parlare. Si gira e mi dà
le
spalle. Si vanta. Ride. Sento le sue ultime parole: "Hai capito,
Fede?
È arrivato e crede di stare a casa sua".
Non fa in tempo a finire. Lo prendo per i capelli. A mano piena.
Quasi lo alzo dalla seggiola. Si mette sull'attenti con la testa
leggermente
piegata verso di me. I capelli tirati in gruppo fanno un
male cane. Lo so. Me lo ricordo. Ma ora sono i suoi.
"Chiudi il telefonino, coglione." Abbozza un "Ti richiamo eh,
scusami". E chiude.
"Allora, per prima cosa questa è casa mia. E poi..." gli tiro i
capelli
più forte. "Ahia, ahia mi fai male."
"Invece io voglio che senti bene: non chiamarmi mai più capo
in vita tua. Hai capito?"
Cerca di fare un sì con la testa ma accenna solo un piccolo
movimento.
Tiro più forte per esserne sicuro.
"Non ho sentito... Hai capito?"
"Ahia, ahia... Sì."
"Non ho sentito."
"Sì" quasi urla dal dolore. Ha le lacrime agli occhi. Mi fa anche
un po' pena. Lo lascio andare con una piccola spinta. Si accascia
sulla sedia. Si massaggia subito la testa.
"Come ti chiami?"
"Alessio."
"Ecco, sorridi," gli do due schiaffetti leggeri sulla guancia,
"ora
puoi richiamarla se ti va, dille pure che hai reagito, che mi hai
cacciato
dalla palestra, che mi hai menato, di' pure quello che ti pare,
ma... non te lo dimenticare. Non mi chiamare mai più capo."
Poi una voce alle mie spalle.
"Anche perché dovresti saperlo. Lui si chiama Step." Mi giro
sorpreso, anche leggermente in difesa. Non mi aspettavo di sentire
il mio nome. Non ho visto nessuno dei miei amici, nessuno che
possa sapere il mio nome. E invece c'è qualcuno. Lui. È magro,
anzi
magrissimo. Alto, braccia lunghe, capelli con un taglio comune,
sopracciglia un po' folte, unite al centro sopra un naso lungo che
sporge su delle labbra strette di una bocca larga. Forse è così
larga
perché sorride. Sembra un francese. Sicuro di sé, tranquillo, ha
le mani in tasca e lo sguardo divertito. Porta i pantaloni lunghi
della
tuta e una felpa sbrindellata sul rosso stinto. Sopra ha un
giubbotto
Levi's chiaro. Non so classificarlo.
"Non ti ricordi di me, vero?" No, non mi ricordo. "Guardami
bene, forse sono cresciuto." Lo guardo meglio. Ha un taglio sopra
la fronte, nascosta dai capelli, ma niente di grave. Si accorge
cosa
sto guardando. "È stato l'incidente in macchina, dai, sei anche
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