America non sarebbe passato. Ma cosa importa. Siamo a Roma, in

una piccola piazza a corso Trieste, vicino a un negozio che vende

roba di finta classe. La accatasta in vetrina al prezzo di 29,90

euro.

Come se un coglione qualsiasi non capisse che avere quella roba

da schifo equivale ai suoi 30 euro. Animo da commercianti, finti

furbi e un sorriso obbligato. Suono.

"Chi è?"

"Ciao papà, sono io."

"Sei puntuale. L'America ti ha cambiato." Ride.

Vorrei tornarmene a casa, ma ormai sono qui: "A che piano

stai?".

"Al secondo."

Secondo piano. Entro e mi chiudo il cancello alle spalle. Che

strano,

il secondo piano non mi è mai piaciuto. L'ho sempre considerato

una via di mezzo tra l'attico e il giardino, un posto al buio per

chi

sopravvive. Spingo il due. Il discorso vale anche per l'ascensore.

Un

tragitto corto a metà. Inutile per chi vuole fare un po' di sport,

scomodo

comunque per chi non ce la fa. Papà è sulla porta che mi aspetta:

"Ciao". È emozionato e mi stringe forte. Un po' a lungo, troppo

a lungo. Mi viene un piccolo nodo alla gola ma lo prendo a calci.

Non ci voglio pensare. Mi dà un cazzotto leggero sulle spalle:

"Allora...

come va?".

"Benissimo." I calci sono serviti. Parlo normalmente: "E tu?

Come stai?".

"Bene. Che te ne sembra di questa casetta? Mi sono spostato

da sei mesi ormai e mi ci trovo bene, l'ho arredata io."

Vorrei dire "e si vede", ma lascio stare. Non che me ne freghi

niente.

"Poi è comoda, non è tanto grande, sarà un'ottantina di metri

quadri, ma per me va benissimo, ci sto quasi sempre da solo."

Mi guarda. Crede o spera che quel "quasi sempre" porti da

qualche parte. Invece no. Se è per me... Giace lì, insabbiato.

Sorride

inutilmente, poi riprende: "Ho trovato quest'occasione e l'ho

presa, poi la sai una cosa? ho sempre pensato che un secondo piano

non mi piacesse invece è meglio, è più... coibentata".

Spero che non mi chieda cosa significhi. L'avrò sentito migliaia

di volte. È uno di quei termini che odio.

"E poi è più comoda, più tranquilla."

Troppi aggettivi sono quasi sempre per giustificare una scelta

sbagliata.

Mi ricorda una frase di Sacha Guitry: "Ci sono persone che

parlano,

parlano... finché non trovano qualcosa da dire".

"Sì, sono d'accordo con te." Magari lo fosse sulla citazione, ma

non può. L'ho solo pensata. Non gliela dirò.

Mi sorride.

"Allora?"

Lo guardo sconfortato. Allora? Cosa vuol dire la domanda

"allora?".

Mi ricordo che quando stavo in classe al liceo c'era Ciro

Monini, quello del primo banco, che diceva sempre: "Allora?

Allora?".

E Innamorato, quello dietro a lui, rispondeva sempre: "Allora?

Sessanta minuti!". E rideva. E la cosa terribile è che rideva

anche l'altro. Andavano avanti così quasi ogni giorno. Non so se

si

vedono ancora. Ma temo che facciano lo stesso gioco magari con

qualcun altro... Allora? Allora io voglio bene a mio padre. Cazzo,

sto male e scomodo in questa poltrona. Ma mi sforzo. "Non sai

quanto sono stato bene a New York, benissimo."

"C'era gente?" Lo guardo. "Dico, italiani." Per un attimo mi

ero preoccupato.

"Sì, molti, ma tutta gente diversa da quella che uno è abituato

a incontrare qui."

"In che senso diversa?"

"Ma, non lo so. Più intelligenti, più attenti. Dicono tutti meno

cazzate. Girano, parlano senza problemi, si raccontano..."

"Che vuol dire si raccontano?"

Se almeno fossimo a cena. A tavola perdonerei chiunque. Anche

i miei parenti. Chi l'ha detto? Ero al liceo e mi ha fatto ridere.

Forse Oscar Wilde. Non credo di farcela. Ma ci provo.

"Che non si nascondono. Affrontano la loro vita. E poi...

ammettono

le loro difficoltà. Non a caso hanno quasi tutti uno

psicanalista."


Mi guarda preoccupato: "Ma perché, tu ci sei andato?".

Mio padre, sempre la domanda sbagliata al momento giusto.

Lo tranquillizzo. "No papà, non ci sono andato." Vorrei aggiungere

"Ma forse avrei dovuto. Forse quello psicanalista americano

avrebbe capito i miei problemi italiani". O forse no. Vorrei

dirglielo, ma lascio stare. Non so quanto dureremo. Cerco di

semplificare.


"Io non sono americano. E noi italiani siamo troppo orgogliosi

per ammettere di aver bisogno di qualcuno. "

Rimane in silenzio. Si preoccupa. Mi dispiace. Allora cerco di


aiutarlo, di non fargli credere che abbia lui qualche colpa.

"E poi scusa che facevo, buttavo i miei soldi? Andare da uno

psicanalista e non capire quello che ti dice in inglese... allora

sì che

hai problemi di testa! " Ride.

"Ho preferito spenderli in un corso di lingue, almeno li ho

buttati,

ma senza sperare di stare meglio! "

Ride di nuovo. Ma mi sembra che si sforzi. Chissà cosa vorrebbe

che gli dicessi.

"Comunque, a volte non siamo capaci di raccontare i nostri

problemi neanche a noi stessi."

Diventa serio.

"Questo è vero."

"È la stessa ragione per la quale ho letto che sono sempre meno

quelli che in chiesa si confessano."

"Già..."

Non ne è convinto. "Ma dove l'hai letta?"

Come sospettavo. "Non me lo ricordo."

"Allora torniamo a noi."

Perché dove eravamo andati? Torniamo a noi... Che modo di

dire. Sto male. Sto scomodo. Mio padre. Mi sto innervosendo.

"Ti ha detto niente Paolo?"

"Di cosa?" Mentire al padre. Io non rientro in quell'articolo

sulla confessione. Non vado in chiesa. Non più. "No, non mi ha

detto niente."

"Be'..." Mi sorride superentusiasta. "Ti ho trovato un lavoro."

Cerco di fingere alla meglio: "Grazie". Sorrido. Dovrei fare

l'attore.


"Potrei sapere di che si tratta?"

"Ma certo. Che sciocco. Allora, ho pensato, visto che sei stato

a New York e hai fatto un corso di computer grafica e di

fotografia,

giusto?"

Andiamo bene. Non è sicuro neanche lui su cosa ha fatto suo

figlio a New York. E dire che la scuola la pagava proprio lui ogni

mese.

"Sì, giusto."


"Ecco, l'ideale era che ti trovassi qualcosa che ha a che fare con

quello che hai studiato. E l'ho trovato! Ti hanno preso in un

programma

televisivo come addetto alla computer grafie e alle immagini!"


Lo dice con un tono che sembra la traduzione italiana dell'oscar

americano: And the winner is... il vincitore è... sono io?

"Be', naturalmente sarai l'assistente, cioè la persona che segue

chi fa tutti i disegni grafici al computer e cura le varie

immagini,

credo."

Quindi non sono il vincitore. Solo un secondo classificato.

"Grazie papà, mi sembra un'ottima cosa."

"O qualcosa del genere, insomma, non so spiegarti."

Approssimativo come sempre. Impreciso. Vicino alla verità o

qualcosa del genere. Mio padre. Ma ha mai capito sul serio quello

che è successo con mamma? Credo di no. A volte mi domando cosa

c'è di lui in me. Mi immagino la scopata che mi ha generato. Lo

guardo, lui sopra la mamma. Mi viene da ridere. Se sapesse cosa

sto

pensando. Suona il citofono. "Ah, deve essere per me." Si alza

frettoloso,

leggermente imbarazzato. E certo, per chi può essere? Io non

abito più qui, come Alice. Papà ritorna ma non si siede. Rimane lì

in

piedi, muove le mani in modo nervoso: "Sai, non so come dire, ma

c'è una persona che vorrei farti conoscere. È strano dirlo al

proprio

figlio, ma diciamo che siamo fra uomini, no? È una donna". Ride

per

sdrammatizzare. Non voglio rendergliela difficile.

"Certo papà, che problema c'è... siamo tra uomini."

Resto in silenzio. Rimane lì in piedi a guardarmi. Non so che

dire.

Vedo che evita il mio sguardo. Suonano alla porta e va ad aprire.

"Ecco, lei è Monica."

E bella. Non tanto alta, troppo truccata. Ha un profumo forte,

un vestito di media eleganza, i capelli troppo bombati, sulle

labbra

troppa matita. Sorride, i denti non sono un granché. Non è poi

così bella. Mi alzo in piedi come mi ha insegnato mia madre e ci

stringiamo la mano.

"Piacere."

"Mi ha tanto parlato di te, sei tornato da poco vero?"

"Ieri."

"Come sei stato fuori?"

"Bene, molto bene."

Si siede tranquilla e accavalla le gambe. Gambe lunghe, molto

belle, scarpe leggermente consumate, un po' troppo. Dalle scarpe,

ho letto, si riconosce la vera eleganza di una persona. Leggo un

sacco

di cose ma non mi ricordo mai dove. Ah sì, era "Class",

sull'aereo.

Era un'intervista a un buttafuori. Diceva che dalle scarpe decide

sempre se far entrare una persona nel suo locale o no. Lei sarebbe

rimasta fuori.

"E quanto tempo sei stato a New York?"